Questione di secondi: gli errori più clamorosi nel mondo dello sport

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Errori e dettagli, piccoli particolari che nel mondo dello sport fanno tutta la differenza del mondo. Nell’ultima finale del Super Bowl, quella tra Seattle e New England Patriots, ce n’è stato uno che difficilmente verrà dimenticato.

L’America non si spiega perché, sul 28-24 per New England, con 26” da giocare e una sola yard mancante alla end zone, Seattle abbia chiamato un passaggio e non affidato la palla alla corsa di Marshawn Lynch per il più probabile dei touch down con annessa vittoria. Come è andata a finire ormai lo sanno tutti: il quarterback Russell Wilson cerca di servire Ricardo Lockette, ma un rookie dei Patriots, nemmeno scelto al draft, Malcom Butler intercetta la palla decisiva. New England torna in attacco, il cronometro corre, Tom Brady mette un paio di volte il ginocchio a terra e il Super Bowl finisce così, col suo trionfo personale e una serie di domande senza risposta.

Tanto che nasce anche la tesi del complotto: il coach dei Seahawks, Pete Carroll, avrebbe cambiato all’ultimo momento la chiamata del suo offensive coordinator, Darrell Bavell, da una corsa a un passaggio. Il motivo? Far vincere il titolo di Mvp a Wilson e non a Lynch. Un cambio di decisione smentita dallo stesso coach: «Darrell è di una bravura incredibile nelle chiamate, è stato assolutamente partecipe della scelta che abbiamo fatto. Semplicemente, nessuno di noi pensava all’intercetto, eravamo assolutamente fiduciosi nel touch down, era già accaduto a 6” dall’intervallo con il passaggio Matthews: se non è finita così è stato per una giocata straordinaria di Butler».

La chiamata resterà nella storia del Super Bowl e dello sport americano come quella di Grady Little, manager dei Red Sox del baseball, che nelle finali della American del 2003 non tolse un Pedro Martinez ormai cotto dal monte di lancio all’ultimo inning permettendo la rimonta e la vittoria degli Yankees.

Le sliding doors dello sport sono infinite, soprattutto in quelle discipline dove le opzioni sono molteplici, la tecnologia impera e il tempo si ferma per pensarci su. Diverso è il calcio, dove, nella finale dell’Europeo Duemila, sull’1-0 per l’Italia, Francesco Totti finì in fuorigioco, su passaggio di Gianluca Pessotto: bastava tener la palla e far finire la partita. Dagli sviluppi di quella punizione, la Francia pareggiò al 94’, per poi batterci con un golden gol di Trezeguet.

Nel basket, i San Antonio Spurs hanno perso il titolo Nba del 2013 per una scelta poco furba del loro coach, Gregg Popovich. Negli Stati Uniti non esiste, come nel resto del mondo, l’idea di fare fallo sull’ultima azione se si è in vantaggio di tre punti, per mandare l’avversario in lunetta con due liberi invece di concedere la possibile tripla del pareggio. E’ una scelta che negli Stati uniti non viene considerata per una (eccessiva) questione di onore e di sportività. Avanti 3-2 nella serie contro Miami, a una sola vittoria dal titolo, in vantaggio di tre punti con 19” da giocare, gli Spurs non hanno fermato l’ultima azione di Miami: ha tirato, e sbagliato, Le- Bron James, ha preso il rimbalzo offensivo Chris Bosh e sulla sirena Ray Allen ha pareggiato mandando la gara al supplementare. Vinto da Miami, come gara-7 e il titolo: tutto per un fallo non fatto. Richiesto di un commento coach Popovich, il più grande allenatore vivente, ha risposto: «Sono cose che fate in Europa, da noi non si usa». E’ stato molto più onesto Dan Peterson che ha ammesso mille volte come la sua decisione di far tirare i tiri liberi nella finale scudetto con Bologna del 1984 sia stata un errore. Ai tempi, chi subiva fallo, poteva scegliere se mantenere il possesso della palla o andare in lunetta. La filosofia di Peterson, americano come Popovich, era di tirare sempre: a 28” dalla fine della bella scudetto contro Bologna che era avanti di 1 punto, Renzo Bariviera subì fallo, Peterson lo mandò in lunetta, il giocatore sbagliò i due liberi e la Virtus vinse il titolo. In questo caso, però, Milano era sotto, poi avrebbe comunque dovuto segnare per vincere. Non era scontato.

Ci sono state altre decisioni che sono costate un titolo. Quella clamorosa della Ferrari, nel 2010 ad Abu Dhabi, che con Fernando Alonso in testa al Mondiale, decise di «marcare» Webber facendo rientrare il proprio pilota ai box seguendo l’australiano, una scelta che lo invischiò nel prosieguo della gara nella scia della Renault di Petrov e che gli costò il titolo.

Oppure il regalo del Galles nel rugby proprio all’Italia: nel 2007, nel Sei Nazioni: azzurri in vantaggio a 23” dalla fine 23-20, i gallesi col calcio di punizione del potenziale pareggio. Ma vogliono vincere. Chiedono all’arbitro: «Se andiamo in touche, abbiamo ancora tempo per giocare?». «Mancano 10”» è la risposta. Il Galles va in touche ma nel frattempo l’80’ è superato di 3”. Vince l’Italia. Di scelte stupide ce ne sono state tante. Fossero andate bene, ora leggeremmo la storia al contrario.