La storia del fuorigioco

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La regola del fuorigioco nacque novant’anni fa quando i dirigenti del calcio mondiale si trovarono ad affrontare una grave crisi: molte partite terminavano 0-0, la media-gol si era pericolosamente abbassata (fino a 2,58 reti a gara, una miseria per quell’epoca) e, soprattutto, gli spettatori erano in calo e gli introiti dei padroni del vapore pure. Si decise allora di dare la colpa di quel fenomeno d’involuzione alla regola del fuorigioco a tre e si propose di passare al fuorigioco a due.

Non era soltanto una questioni numerica, ma concettuale. In sostanza, alcune squadre negli anni Venti avevano trovato l’antidoto difensivo perfetto. Allora si giocava con il metodo, che era poi la piramide di Cambridge leggermente modificata: 2-3-2-3 (invece di 2-3-5). I due difensori più il portiere tenevano in gioco l’attaccante, ma bastava che uno facesse un movimento in avanti al momento del lancio per il centravanti avversario e questi finiva in fuorigioco. Maestri di questa tattica erano Morley e Montgomery del Notts County, e pure Hudspeth e McCracken del Newcastle non erano male. Ne conseguì, come accade ogni volta che si trova una buona soluzione, che molti allenatori insegnarono ai loro difensori quei movimenti, li obbligarono a prendere come esempi Morley e Montgomery, o Hudspeth e McCracken, e gli attaccanti di tutto il mondo restarono prigionieri per la delusione degli spettatori che non vedevano più gol..

La crisi avanzava minacciosa, coinvolgeva l’Inghilterra ma non soltanto, e rischiava di minare l’essenza del gioco. Fu allora che i dirigenti calcistici si misero al lavoro per studiare qualche accorgimento. Due in particolare: passare al fuorigioco a due appunto, oppure tracciare due linee in ogni metà campo all’altezza dei 36 metri, dietro le quali un attaccante veniva considerato in posizione regolare. Nell’inverno del 1925 cominciarono gli esperimenti, vennero disputate partite amichevoli durante le quali si giocava il primo tempo con la regola del fuorigioco a due e il secondo tempo con la regola delle linee a 36 metri. Alte si levarono le grida di disapprovazione da parte dei tradizionalisti, quelli che non ammettevano cambi al sistema.

Ma i dirigenti andarono avanti per la loro strada e alla riunione dell’International Board, il 13 giugno 1925, in un elegante palazzo di Rue de Londres a Parigi, venne approvata la modifica del regolamento su proposta del rappresentante scozzese. Era passato il fuorigioco a due, adesso si trattava di verificarne gli effetti. Alla base dell’evoluzione c’era un desiderio di spettacolo, questo è ovvio. E c’era, in particolare, la volontà di favorire gli attaccanti rispetto ai difensori. Quando il calcio nacque, a metà dell’Ottocento, da una costola del rugby, era un gioco di dribbling: si doveva superare l’avversario attraverso l’abilità, le finte, la tecnica.

Poi, nel giro di pochi anni, si trasformò in gioco di passaggi, e vennero privilegiati i lanci lunghi, la forza fisica, le qualità atletiche dei protagonisti. Ora si cercava una via di mezzo, il famoso compromesso: non si voleva che gli attaccanti fossero penalizzati e, allo stesso tempo, non si voleva essere punitivi nei confronti dei difensori. La nuova regola portò un maggior numero di gol, la media si alzò fino a toccare quota 3,69 nella stagione successiva alla modifica, ma in realtà ciò fu dovuto al fatto che molte squadre non avevano ancora trovato le contromisure.

Un vecchio proverbio recita: «Fatta la legge trovato l’inganno». E così fu. L’allenatore dell’Arsenal Herbert Chapman, ingaggiato a suon di sterline proprio nell’estate del 1925 subito dopo l’approvazione del fuorigioco a due, fu messo sul banco degli imputati dal ricco proprietario del club, Sir Henry Norris, e dal giocatore più importante della squadra, Charles Buchan. Lo accusavano di non aver modificato le sue idee e gli proposero di inserire un difensore in più in mezzo ai due classici. Chapman accettò e nacque il famoso sistema o WM. In pratica, un 3-4-3. Il difensore in più era lo stopper che si occupava di marcare il centravanti avversario: Jack Butler fu uno dei primi interpreti del ruolo. Con il WM si giocava uomo-contro-uomo, tante corse, tanti duelli. Chissà se i dirigenti che si riunirono a Parigi, in quel giugno del 1925, pensavano di aver dato l’avvio a una discussione che dura ancora oggi. Il problema è che, nonostante quello che raccontano, gli allenatori da sempre si preoccupano prima di tutto di non subire gol e poi, magari, di farne.

Scrisse un aiutante di Chapman: «Il segreto non è attaccare, ma contrattaccare. Comandare il gioco a metà campo o riempire di giocatori l’area avversaria non è lo scopo di questo gioco. Noi, all’Arsenal, attiriamo deliberatamente i nemici per poi allontanare la palla velocemente attraverso lanci lunghi verso le nostre ali». E’ la spiegazione dell’italico contropiede. E il fuorigioco, ben presto, diventò diventato una tattica difensiva. Pensiamo alla Grande Olanda che con il movimento in sincronia dei difensori metteva gli avversari in posizione irregolare. Oppure ricordiamoci del pressing e del fuorigioco alto del Milan di Sacchi con Baresi che, qualora l’arbitro se ne fosse dimenticato, alzava il braccio a ricordargli che era il caso di fischiare. Ma quell’atteggiamento non produceva più gol, semmai contribuiva ad aumentare la frustrazione degli avversari che non trovavano le contromisure. La verità è che non ci sono regole che garantiscano spettacolo, gol e divertimento, tranne una: far giocare quelli che al pallone danno del tu e non del voi.

(Da “La gazzetta dello sport” del 14 Gennaio 2015)