Il Carnevale e il gioco della “Pezza ’u casu” a Bisignano

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Il Carnevale e il gioco della “Pezza ’u casu” a Bisignano
(di Alberto De Luca – Tutti i diritti riservati)

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Origini del Carnevale

Prima di affrontare il discorso su Bisignano, è opportuno concentrare l’attenzione su alcuni aspetti che caratterizzano il Carnevale nel resto del mondo e in Calabria.

Il Carnevale è, infatti, una festa che si celebra in quasi tutto il mondo, in forme diversificate, la cui diffusione è paragonabile, per la sua popolarità, ad un’altra ben nota festa profana, ossia quella dell’ultimo giorno dell’anno. Molto famosi, nel mondo, sono i carnevali di Rio de Janeiro, in Brasile, quello di New Orleans, negli Stati Uniti, e di Venezia o di Viareggio in Italia. Comuni a tutti, sono il periodo nel quale di norma si festeggia, compreso tra l’Epifania e la Quaresima, e i giorni di più intensa baldoria il Giovedì, il Sabato e in particolare il Martedì grasso, appartenenti all’ultima settimana prima dell’inizio della penitenza.

Sull’origine del Carnevale ci riferisce Dario Leone il quale scrive:

<<Contrariamente a quella che è l’opinione comune, il Carnevale è una festa d’origine religiosa>>[1].

A tal proposito Giovanni Battista Bronzini aggiunge:

<<Il Carnevale, in quanto personaggio/simbolo è nato storicamente nella liturgia cristiana in funzione antitetica alla Quaresima/Pasqua. Come tale si è sovrapposto a personaggi/simboli dell’antichità classica pagana, ereditando ma dissipando allo stesso tempo le loro prerogative>>[2].

Proprio a riguardo di questo rapporto tra Carnevale e festa pagana antica si può prendere in considerazione un’ipotesi contraria a quella dello studioso citato.

In questa direzione Teobaldo Guzzo afferma che probabilmente le origini del nostro Carnevale risalgono alla civiltà Mesopotamica e intorno al secondo millennio avanti Cristo, allorquando per propiziare i riti della fecondità della terra si organizzavano le feste in onore di Bacco, di Saturno e di Priapo[3].

Di queste feste antiche quella che sembra avere raccolto il favore di più studiosi nella sua possibile relazione filogenetica con la nostra, è sicuramente la festa dei Saturnali nell’antica Roma di cui in particolare due elementi sembrano essere comuni: l’elezione di un monarca fittizio sacrificato nell’ultimo giorno di festa (un uomo in carne ed ossa, nella festa dei Saturnali, che diventa nel nostro Carnevale un fantoccio di paglia o di cartone); e un generale comportamento rovesciato di tutta la collettività.

Sul primo dato ci riferisce Roger Caillois, il quale scrive:

A Roma, veniva eletto un monarca che impartiva ordini ridicoli ai suoi sudditi di un giorno, come, per esempio, fare il giro della casa portando una suonatrice di flauto sulle spalle. Certi dati lasciano congetturare che in tempi più remoti il falso re fosse vittima di un destino tragico: gli era concesso tutto, ogni dissolutezza, ogni eccesso, ma poi lo si sacrificava sull’altare di Saturno[4].

E ancora J. G. Frazer aggiunge:

A Roma un mese prima della festa i soldati sceglievano, tirando a sorte, uno di loro, giovane e bello, che poi rivestivano con panni regali, a somiglianza di Saturno. Così paludato, e seguito da una moltitudine di soldati, il giovane si aggirava per le strade, dando libero sfogo alle sue passioni e alle sue voglie, anche le più basse e vergognose. Ma se il suo regno era gioioso, era anche breve e finiva tragicamente allo scadere dei trenta giorni, quando iniziavano i Saturnali, e il giovane si tagliava la gola sull’altare di quel dio che egli impersonava[5].

La somiglianza con i nostri festeggiamenti carnevaleschi è sorprendente, infatti, è usanza diffusa in molti paesi dell’Italia meridionale celebrare fittiziamente, l’ultima Domenica o il Martedì Grasso, i funerali di Carnevale: un fantoccio di paglia e cartone, impersonante appunto Re Carnevale, dopo aver sfilato lungo le vie del paese accompagnato da gridi e pianti che mimano i tradizionali atteggiamenti del lamento funebre, viene in vario modo “sacrificato”[6].Proprio in relazione a quest’ultimo elemento sia Frazer che Caillois giungono a conclusioni molto simili, il primo affermando.

E’ stata spesso sottolineata la somiglianza fra gli antichi Saturnali romani e il moderno Carnevale; ma ci si può chiedere se non si possa parlare di identità più che di somiglianza. Come già detto in Italia, in Spagna e in Francia una componente di rilievo del Carnevale è il personaggio burlesco che simboleggia il periodo festivo e che, dopo la sua breve carriera di gloria e sregolatezza, viene pubblicamente distrutto. Se la nostra interpretazione è corretta, questo grottesco personaggio non è altro che il diretto successore dell’antico re dei Saturnali[7].

Più prudente è invece R. Caillois, il quale, scrive:

<<Tutto induce a considerare il Carnevale moderno come una specie di moribonda eco di feste antiche sul tipo dei saturnali. Difatti un manichino di cartone raffigurante un re enorme, colorato, comico, viene fucilato, bruciato o annegato alla fine di un periodo di baldoria>>[8].

Grazie a queste innegabili somiglianze con il passato i due studiosi sottolineano la perdita, nella festa attuale, di quell’elemento religioso presente almeno all’inizio nelle feste antiche. Infatti, per Caillois, il rito non ha più valore religioso, perché nel momento in cui alla vittima umana viene sostituita soltanto un’effigie, il rito tende a perdere il suo valore espiatorio e fecondante ed assume un carattere parodico[9]. Così le sane celebrazioni del mondo antico, nate inizialmente con propositi religiosi e successivamente trasformati dagli eventi, in incontri orgiastici, finiscono per costituire una festa che non poté mai appartenere alla Chiesa poiché espressione diretta del mondo quotidiano e seconda vita del popolo[10]. Il Carnevale diventa, dunque, un generale e diffuso comportamento rovesciato.

A tal proposito Caillois è particolarmente eloquente nell’attestare quanto segue:

<<Gli atti alla rovescia ci insegnano ad agire in modo diametralmente opposto al comportamento normale. Gli schiavi mangiano alla mensa dei padroni, li comandano, si fanno beffe di loro che invece li servono, ubbidiscono subiscono affronti e rimproveri>>[11].

Ciò che lo studioso afferma accade nella festa attuale e nei giorni di più intensa baldoria dove tutto è concesso: ognuno si traveste, per un breve periodo diventa un altro, si comporta come un altro e tutto avviene senza infrazioni di regole poiché è Carnevale, ossia, un mondo a rovescio in cui tutto è concesso.

Da quanto detto finora si evince come il Carnevale si sia distinto, sin dalle sue forme primordiali, per un suo aspetto peculiare: esso si organizza sempre sul principio del riso. Bandito dai culti della chiesa e della vita in genere il riso si è annidato laddove, in specifici momenti dell’anno, le tensioni si allentano consentendo alle pulsioni di emergere ed esplodere in tutta la loro forza contestativa.

Il Carnevale è certamente il più rappresentativo di questi momenti poiché qui il riso, al di là della sua importante funzione rigenerativa, soddisfa anche un bisogno di contestazione e di derisione nei confronti di un mondo costruito su inalterabili e opprimenti modelli di potere.

A tal proposito M. Bachtin scrive:

<<Il principio comico organizzatore dei riti carnevaleschi si libera del tutto da ogni dogmatismo religioso o ecclesiastico, dal misticismo, dalla pietà; Tutte le forme carnevalesche sono certamente esterne alla Chiesa e alla religione. Appartengono a una festa del tutto particolare della vita quotidiana>>[12]. Una forma di riso, che rivela una concezione del mondo marcatamente non ufficiale, esterna sia alla Chiesa sia allo Stato, intenta ad abolire, nelle sue innumerevoli manifestazioni, ogni tipo di rapporto gerarchico, ogni privilegio o tabù, ad infrangere l’immutabilità di un ordine costituito, di una morale, sia politica sia religiosa troppo distanti dai desideri delle classi subalterne. La festa, il riso, l’oscenità, l’abbassamento al materiale corporeo, sconsacrano quell’ineguaglianza che la festa ufficiale puntualmente consacra, liberando temporaneamente gli individui da regole opprimenti imposte dall’ufficialità e indirizzandoli verso un mondo utopico fatto d’uguaglianza e di libertà che irrompe nelle case, nelle vie e nelle piazze d’ogni paese portando una ventata di novità sostanziali nella vita comune di tutti i giorni.

Per Bacthin, in tutta la durata del Carnevale, è dunque la vita stessa che recita abolendo ogni forma di barriera tra attore e spettatore. Al Carnevale, dice ancora l’autore, non si assiste, ma lo si vive poiché esso, per definizione è fatto dall’insieme del popolo. La celebrazione del Carnevale, allora, non è altro che la riaffermazione della vita intesa come rinascita e rinnovamento del mondo intero a cui ogni individuo partecipa elaborando, in questo gioco di rovesci, una serie di linguaggi e di forme comunicative (verbali e non) le quali riducono le distanze tra i soggetti e infrangono volutamente quelle che sono le regole canoniche del cosiddetto “buon costume”[13]. Il riso e l’oscenità si rivelano, e non solo per Bachtin, quali elementi essenziali su cui costruire questo sistema comunicativo e un tipo di società diversa che rinasce.

Il clima che s’instaura, dunque, durante il Carnevale, risponde, sicuramente, in maniera efficace ad un bisogno di rinnovamento che investe globalmente l’ordine culturale ormai saturo della sua immutabilità e quotidianità.

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Carnevale e gioco in Calabria

In Calabria la festa del Carnevale conserva tutti gli aspetti dell’antica festività pagana, dalle analogie con le feste che si svolgevano nel mondo antico, fino all’abbattimento e all’eliminazione d’ogni sofferenza quotidiana. Non a caso, infatti, la celebrazione di questa festa assume nel nostro territorio una funzione di “scarico” di tutte le tensioni sociali accumulate nel corso dell’anno e prodotte soprattutto dalle “precarie” condizioni di vita e dalle diverse forme culturali, legate a valori etici e morali, che, per fortuna, ancora oggi sopravvivono in molti luoghi e garantiscono la conservazione delle nostre radici. L’elemento folklorico più importante del Carnevale calabrese è costituito perciò dalle maschere e dalle rappresentazioni sceniche/rituali attraverso le quali il popolo vive la sua partecipazione, allevia le sue ansie, ricompone i suoi conflitti e rinnova la sua integrazione etnica.

Sul tema della maschera e dell’importanza che essa assume in Calabria ci riferisce Marcello Barberio il quale, scrive:

 

Anche la Calabria, perciò, ha le sue maschere: quelle simboliche della tradizione colta e quelle della scena reale, delle farse e degli strambotti popolari. Il tipo caratteristico della scena reale calabrese è Jugale il finto tonto, lo stupido fortunato che impersona i difetti del suo gruppo etnico e conserva la straordinaria saggezza di un popolo costretto a canalizzare la ribellione in una forma di comicità contenuta e forzata. La maschera della scena simbolica è Giangurgolo, nato nella commedia erudita a imitazione del gran cialtrone e crapulone di Bucco[14].

E Marina Rinaldo da parte sua aggiunge:

<<Vi è pure Coviello, un personaggio che sta tra il giullare matto, il musico parassita ed il cortigiano adulatore: è vile, servo dei padroni, furbastro nel naso a becco e la barba da caprone>>[15].

Tali maschere, pur rispondendo alle più autentiche tradizioni locali, non sono riuscite a sfondare il provincialismo, e ad entrare, quindi, nella tradizione ufficiale nazionale, questo forse anche per colpa dei mass-media che tendono ad una piatta omogeneizzazione delle tradizioni. Così, nonostante la lodevole opera di alcuni artisti e studiosi calabresi, tra Colombina, Arlecchino, Brighella e Balanzone i nostri Jugale, Giangurgolo e Coviello non hanno potuto trovare asilo. Le numerose farse recitate nei diversi luoghi del territorio calabrese venivano e vengono ancora oggi celebrate per le piazze e per le vie dei sobborghi, da attori dilettanti, improvvisati, spesso analfabeti.

A tal proposito Domenico. A. Sgrò ci riferisce:

I mascherati si vestivano nei modi più strani e buffi, perché tutto doveva costituire (quindi anche l’abbigliamento) motivo di risate e schiamazzi: un cappellaccio, una sottana rattoppata della nonna, due ciabatte dissimili, trovati tra le cianfrusaglie di casa, erano il corredo sufficiente per fare un personaggio da farsa[16].

La maschera nelle farse assumeva dunque il ruolo di regina dello spettacolo ed in generale del Carnevale. Essa rappresentava l’anonimato proprio come era all’origine per i Greci, presso i quali, gli attori erano costretti ad usarle poiché interpretavano anche ruoli femminili[17]. Ogni paese aveva il suo poeta, magari rozzo e scalzo, ma col dono di natura di comporre versi rimati. In queste farse la bravura scolastica contava ben poco e ciò faceva risaltare nei vari spettacoli tutto l’aspetto folkloristico e popolare, la cui conoscenza è indispensabile per farsi un’idea precisa della genuinità di tali manifestazioni. Le farse erano quindi spettacoli a contenuto prevalentemente popolare e spesso avevano come tema centrale il processo e la morte di Re Carnevale che consisteva nel bruciare, alla fine dello spettacolo, un fantoccio fatto di carta e di cenci, il quale simboleggiava l’eliminazione del vecchio anno e di tutti i mali fisici e morali che questo aveva recato agli uomini della comunità.

Su questo punto ci riferisce ancora una volta D. Leone il quale scrive:

 

Ancora oggi i componimenti gioiosi, le farse, e i lazzi, che precedono e seguono il “testamento” del re Carnevale, sono un pretesto per mettere in evidenza le magagne e gli scandali che si sono accumulati nella vita paesana durante il corso dell’anno e che vengono messi in luce in quest’occasione (senza che gli interessati se ne offendano), perché  con questa pubblica confessione satirica e bonacciona, la collettività possa nuovamente muovere, pura e sana, verso il nuovo anno[18].

Attraverso questi riti, la comunità mirava ad ottenere, oltre al rinnovamento umano e alla purificazione dello spirito, anche quello della natura e del cosmo. Non è un caso se tale ricorrenza, ancora oggi, è considerata in molti luoghi della nostra regione come la festa della fertilità della terra che si celebra con l’arrivo della stagione nuova (la primavera), in cui tutto rinasce.

Di questa funzione di rinascita cosmica e del rapporto mondo dei vivi/mondo dei morti ci riferiscono D. Altobelli e M. Di Geronimo i quali ci riferiscono:

<<Si può azzardare, ma non del tutto infondatamente, che il Carnevale odierno rechi le sbiadite tracce di una “festa di capodanno” che, nel mondo antico, in un’esistenza misurata sulla vita dei campi, celebrava la morte dell’anno vecchio – la fine dell’inverno – e l’inizio della primavera e rinascita vegetale e del mondo naturale>>[19].

Diversi studi hanno accertato che presso le civiltà agricole, la cui esistenza era legata alle condizioni ambientali e agli esiti dei raccolti, vi erano feste che scandivano le parti critiche dell’anno.

Di una di queste feste ci parla Ernesto De Martino, il quale scrive:

<< è “la festa primaverile dei germogli”, il ciclo delle “anthesteria”, nella quale si liquidavano le passività dell’anno spirante, si regolavano i debiti col regno dei morti, si prefigurava e assicurava la fortuna e la fecondità dell’anno sopravveniente>>[20].

Fino a qualche decennio fa, il periodo della baldoria in molti paesi della Calabria iniziava con abbondante anticipo rispetto all’appuntamento carnevalesco. Ci si preparava al grande divertimento della settimana già nelle domeniche precedenti favorendo così occasioni da passare in allegra compagnia organizzando, in alcuni paesi, i giochi tradizionali della festa.

A tal proposito ci riferisce Gaetano Gallo, il quale scrive:

Fra i vari giuochi, che nel periodo carnevalesco, avevan luogo in Calabria, quello di Longobucco, un paesello sulle pendici orientali della Sila, è caratteristico, e merita di essere ricordato.(…). Nell’ampia piazza, una briosa comitiva conficcava nel terreno due grosse antenne, equidistanti l’una dall’altra, mentre una terza era inchiodata sulle due estremità. Nel centro di essa un agnello, da poco sgozzato, pendeva perpendicolarmente, e per l’aere echeggiava, con rudezza, la nenia a nannuzzu carnalivaru.

I concorrenti vestiti con sfarzo, cavalcavano robuste mule, riccamente bardate. Sfolgoravano, come drappi da torneo, le belle coperte, tessute, con mani di fate, dalle sapienti donne longobucchesi!

Il popolo fremeva nell’attesa: i cavalieri (…) iniziando la carica stringendo fra la mano destra una daga di legno e attraversando per sotto l’improvvisa costruzione, percotevano il collo del quadrupede. Ciò veniva sempre ripetuto galoppando, fino a che il capo dell’agnello non si staccasse dal corpo.

E si ch’ era festeggiato il vincitore. A lui aspettava l’agnello che, più tardi, cotto al forno, con assieme una gran quantità di vino, avidamente veniva divorato[21].

E ancora aggiunge:

Questa costumanza me ne richiama alla memoria una analoga o simile che aveva luogo in Cassano nel periodo delle feste di Carnevale. <<La gioventù volgare –(…)-ama poi un altro divertimento, che sa invero di barbarie, ed è di vestirsi da turchi, o da guerrieri del medio evo a cavallo, e lanciare il cavallo medesimo a tutta corsa, roteare la sciabola per aria, e poi ferire al collo un montone o un vitello appeso pei piedi con una fune legata a due finestre opposte in una pubblica strada. Il premio vien guadagnato da colui sotto il cui colpo cade il capo dell’animale>>[22].

I giochi o gli usi di cui ci riferisce G. Gallo conducono la mente alle cosiddette giostre del galletto e dell’anatra, che, un tempo, si tenevano in alcuni paesi della Toscana (Arezzo, San Sepolcro, Casoli d’Elsa, Vicopisano). <<Dopo aver legato il gallo o la gallina a terra con un lungo nastro, e dopo avere appesa la povera bestia ad una corda attraverso alla via, si prendeva al bersaglio col fucile o con sassi, oppure si cercava di tagliarle il collo con un coltello, andando a gran corsa senza fermarsi>>[23].

Oggi purtroppo il Carnevale rappresenta solo un piccolo residuo della più grande festività pagana dell’antichità. Gli spettacoli, i giochi e le danze che caratterizzano oggi il Carnevale calabrese, non sono altro che vecchi ricordi di quei riti propiziatori praticati dalle antiche tribù italiche che abitarono la regione prima dell’arrivo dei Greci e dei Romani. Di questo mondo contadino e di questa cultura popolare oggi rimane, infatti, solo la memoria storica; una memoria che continua sempre di più ad appartenere alle cose del passato. <<Una Cultura – ha scritto Vito Teti- che in passato è stata sommersa, soffocata, distrutta, negata; e negli ultimi tempi è stata falsata, stravolta attraverso tentativi di strumentalizzazione, mitizzazione, utilizzazione acritica ed interessata>>[24].

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Il Carnevale a Bisignano

IL Carnevale in Bisignano rimonta a tempi lontanissimi.

Questo è quanto ci riferisce Rosario Curìa, il quale, scrive:

Nello spazio che oggi viene chiamato Largo dell’Olmo, intorno all’albero ritenuto sacro, si celebravano i riti civili e religiosi, i matrimoni e i sacrifici in onore degli Dei, tutte le manifestazioni popolari e folkloristiche dell’età tribale tra preistoria e storia. Il rituale in onore degli Dei si svolgeva nelle forme più strane all’inizio della primavera con offerte di primizie e sacrifici di animali; con danze e costumanze orgiastiche, con giochi e lotte all’ultimo sangue, com’era nel “Pancrazio”, lotta e pugilato insieme in cui uno dei due contendenti alla fine rimaneva esanime sul terreno dello scontro. Per le feste e i rituali, si indossavano maschere ossessive raffiguranti deità, eroi o mostri sacri, e ci si dipingeva il volto per non farsi riconoscere e mantenere quindi l’anonimato[25].

A proposito di quello che lo studioso di storia locale afferma possiamo probabilmente concordare sull’origine antica del Carnevale a Bisignano e possiamo dire che esso iniziava tra noi, come pure nel resto d’Italia, il 17 gennaio, giorno sacro dedicato a S. Antonio Abate detto anche “S. Antonio iru puarcu” (S. Antonio del maiale); perché con il Carnevale, o poco prima di esso, si dava inizio al periodo dedicato all’uccisione dei maiali, che, ancora oggi, in molti paesi del circondario bisignanese, rappresenta una vera festa di famiglia in cui si mangia e si balla. Per quanto concerne, invece, i rituali ed i sacrifici che si svolgevano in onore degli Dei all’inizio della primavera possiamo sicuramente dire che nel Carnevale più vicino ai nostri tempi e nelle offerte dei fedeli ai santi possiamo forse, inconsciamente, ritrovare i riti religiosi e civili di quella età remota che rivivono oggi nelle manifestazioni buffe e sregolate che caratterizzano le abbuffate e i giochi nel giorno della festa.

Una tradizione che è sicuramente rimasta intatta, sia a Bisignano che in molti paesi limitrofi, è quella delle serenate mascherate che, vengono chiamate le “pupelle” che si svolgono durante tutti i tre giorni di festa.

Di queste manifestazioni ci parla Antonio Julia, un noto avvocato acrese, il quale, nel lontano 1895, scriveva:

 

Ai balli si va quasi da tutti vestiti in maschera – e le persone così vestite diconsi ’mbuvelli. Le donne per lo più usano maschere con un velo, il cosidetto tullu. Sogliono alcuni individui condur seco ai balli un certo numero di donne; le quali, una dopo l’altra, debbono tutte ballare. Se il padrone di casa non permette ciò, allora il cavaliere esce unitamente alle dame, protestando, od imptecando, e va a bussare ad altre porte[26].

Ancora oggi, a distanza di più di un secolo, donne e uomini bisignanesi nelle notti di Carnevale usano mascherarsi con quello che trovano e, accompagnati da uno o più suonatori, vanno in giro per le case a svegliare in piena notte amici e conoscenti per ballare e cantare insieme riproponendo uno spettacolo simile a quello che A. Julia ci descrive, in maniera minuziosa, nella seconda parte del suo scritto nel quale si legge:

Entriamo un po’, p. e., in una casa popolana, dove si balli – e che vediamo? Le donne sedute in un punto; gli uomini, in un altro della sala. Più in là, i sonatori con in mano la cosiddetta chitarra battente, il mandolino, il violino, cui si accompagnano sovente l’acciaretto e il tamburello – quest’ultimo sonato da una donna. Qualche volta, vi è anche il contadino, che suona la cornamusa. Un uomo e una giovine ballano intanto – e chi suona cerca di farsi onore. – Gridano gli astanti – e l’uomo fa le scattignole; batte le mani, si convelle tutto, fa mille moine. La donna, invece, sta col capo lievemente inclinato, fa anche – ma di rado – qualche scattignola; e or  alza, or bassa il grembiale, quasi a battere il tempo al suono, che le fa muovere cosi graziosamente le gambe. Il cavaliere, oltre a quanto si è detto, inginocchiasi alcune volte dinnanzi alla dama; altre volte, le dà la mano; e poi, ad onta che la giovine cerchi d’impedirglielo, tenta di attorniarla, o come qui dicono, arrotarla – e se riesce a far ciò, il cavaliere è un ballerino valente. Or mentre la coppia balla, e più si accalora nel muover le gambe, si presenta un secondo cavaliere, e stagliato (allontanato) il primo, vien lui a ballare invece di questo; e altri ancora, finchè non reputino conveniente di far riposare la giovine[27].

La scena descritta da Julia probabilmente trova riscontro nelle attuali serenate in maschera che caratterizzano il Carnevale a Bisignano, anche se, tali manifestazioni, assumono un aspetto formale diverso rispetto alla tradizione.

Aldilà delle differenze materiali legate al diverso modo di organizzare la serenata, di concepire un ballo o di utilizzare strumenti e suoni diversi dal passato, l’elemento che sicuramente rimane invariato, all’interno delle serenate odierne, è sicuramente il valore simbolico che, in queste, assume il rituale della danza, il quale riproduce un atteggiamento sensuale e liberatorio, come accade nella scena descritta da Julia, dove l’uomo e la donna diventano i protagonisti di un rito simile a quello di due gru che si corteggiano in una vorticosa danza. Il fatto di mascherarsi, di varcare in piena notte la soglia di un luogo che non ci appartiene, e quindi, irrompere, nell’intimità altrui invitando donne e uomini al ballo, riproduce senza alcun dubbio e in maniera simbolica il clima orgiastico delle antiche feste da cui ha origine il Carnevale. Dunque, ciò proverebbe anche “l’antica origine” del Carnevale bisignanese di cui il Curìa parla, magari con un tono marcato e arricchito di particolari fantasiosi. Oltre alle “pupelle” in Bisignano, specie nell’ultimo giorno della festa, si solevano recitare le farse.

Della tradizione farsesca a Bisignano ci riferisce propio R. Curia il quale, scrive:

La tradizione del Carnevale in Bisignano rimonta a tempi lontanissimi e si perpetuò fino a quando non perse i contatti e i legamenti con la commedia dell’arte e non fu più in grado di competere a livello culturalistico all’esterno con gli altri centri di maggiore diffusione e produzione artistico/letteraria. Eppure non mancarono lo stesso interessanti componimenti, commediole, satire e strombetti, farse e scherzi dei nostri poeti dialettali, tra cui, gli ultimi della serie, Russo e D’Aiello, opere che si allineavano perfettamente alla “commedia dell’arte” di altre più notorie località, purtroppo scomparse, perché nessuno ne curò la raccolta e la stampa, mentre residui inconsistenti e di difficile attribuzione si declamano ancora durante le sfilate delle nostre maschere[28].

E a tal proposito A. Julia ancora scrive:

In alcuni paesi della Calabria, il terzo giorno di Carnevale, le maschere recitano delle farse curiosissime, i cui personaggi principali sono naturalmente Carnevale e Quaresima. Da noi, (in Acri) non vi è quest’uso; e se qualche volta vi si recitano di tali farse, ciò avviene per opera di forestieri.

In Bisignano, paese poco distante da Acri, se ne recita tuttavia una: Il matrimonio della figlia di Carnevale, i cui personaggi sono:

Puorzia e Carnilrvari (i coniugi);

Ciccilluzza (a figlia);

D. Rimienzu (amante di costei);

Pagliacciu (fidanzato della stessa);

Notaio.

Per avere un’idea di questo componimento, ne riporto alcuni brani, incominciando dal principio:

Carn. Puorzia mia, sienti ’ssu bustu:

sugnu ’n omu d’assai tiempu,

sugnu ’n omu de bon gustu:

Puorzia mia, sienti ’ssu bustu.

Puor. Martiallu mia aggarbatu:

zocchi (ciò che) dici, iu tiegnu a menti;

zocchi (sottintendia) t’esci de ’ssa vucca

obbidisciu prontamenti.

Carn. Vì ch’ ’u munnu è malandrinu,

’unn’ è cumu a tiempu nostru:

riposari nu’ mpotimu

scutàti (sicuri) a lu cuscinu.

Nua avimu chista figlia, chi s’è fatta ’rannicella (grandetta)….

Pagl. Ed a mia m’è statu dittu

Ca ’nu certu D. Rimienzu

Si ni veni cittu cittu

Alli mura sutta ccà.

Carn. Casu mai chi mi addugnu, (acorgo)

Ch’illu duna ’ncunu (qualche) passu

(ti lu juru pe’ lu mpiernu)

ca ci fazzu ’nu fracasciu.

Entra, intanto, D. Rimienzu; e Ciccilluzza gli annunzia che si è già fidanzata con Pagliaccio; tanto vero, che fra poco giungerà il Notaio a stipulare i capitoli, D. Riminienzu n’è dolentissimo; mentre il fortunato Pagliaccio pregusta le gioie del matrimonio, e se la ride tranquillamente….

E la farsa finisce con la costituzione della dote di Ciccilluzza, cui il padre promette.

Maccarruni ’nquantitati,

de tri puorci li panzagli,

e sasizzi e suppressati[29].


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Il gioco della “pezza ’u casu” a Bisignano

Il tempo della festa a Bisignano non si esauriva soltanto nello svolgimento della farsa carnevalesca in cui tutto era permesso (follie, buffonate, sregolatezze) ma consisteva anche nel dedicarsi al gioco.

Esso, infatti, rappresentava per il popolo uno dei divertimenti più attesi della festa attraverso il quale si promuoveva e si regolava la convivenza. Il gioco divertiva, liberava, scatenava e, al contempo, educava all’osservanza di norme che limitavano qualsiasi tipo di degenerazione.

Di un gioco “carnevalesco” a Bisignano ci riferisce R. Curìa, il quale scrive:

<<Nei tre giorni culminanti del Carnevale, in Bisignano, con grande accanimento da parte dei partecipanti, si svolge il tradizionale giuoco della “Pezza ’u casu”, fuori l’abitato, in fondo al rione Piano che ne conserva “ab antiquo” la preminenza e ne tramanda le regole da seguire>>[30].

Della “pezza ’u casu” in Bisignano ci riferisce anche Rosario D’Alessandro mediante un atto della corte arcivescovile di Bisignano conservato nel suo archivio privato.

Il documento, risalente al 1776, ricostruisce l’avvenuta lite tra un prete ed un frate nel rione di S. Zaccaria attraverso il racconto di alcuni testimoni i quali, nella ricostruzione dei fatti, più volte sottolineano di trovarsi in quel dato luogo perché fra loro si stava svolgendo il gioco della ruocciola.

Nell’atto il Sig. Pietro Rago ricordava testualmente quanto segue:

<< (…) e niente più di questo viddi, perché stavo applicato al giuoco della ruocciola e mi ero allontanato da quel luogo (…)>>[31].

E ancora Giuseppe Barbuto aggiunge:

<< (…) trovandomi a giuocare alla ruocciola nel quartiere si S. to Zaccaria (…) >>[32].

Da queste testimonianze si evince l’antica presenza del gioco in Bisignano anche se, con molta probabilità, il gioco esisteva già in tempi più remoti come ricorda anche Curìa[33].

Attraverso la lettura dell’atto arcivescovile si possono fare delle deduzioni sul nome del gioco e il luogo in cui esso si svolgeva. Infatti, le interviste realizzate con l’aiuto dei più anziani del paese e dei tanti giocatori giovani (i quali ancora oggi praticano il gioco come un vero e proprio sport stagionale) ci riferiscono di una problematica riguardante il nome del gioco che secondo alcuni è da chiamarsi ruocciola, secondo altri tiruocciola, e secondo altri ancora semplicemente “pezza ’u casu”.

Il problema, per quanto intricato possa sembrare, è di facile soluzione poiché nasce da alcune incomprensioni di fondo. In effetti il gioco a Bisignano potrebbe chiamarsi benissimo ruocciola poiché con questo termine si indicherebbe l’oggetto, in legno, con il quale spesso si svolgeva il gioco quando mancava la forma del formaggio. In questo caso il nome dato al gioco deriverebbe direttamente dall’oggetto con il quale si realizzava lo stesso.

A tal proposito potremmo benissimo accettare come nome del gioco anche il termine tiruocciola poiché esso implica sia l’oggetto di gioco (la ruocciola), sia il gesto con il quale il giocatore imprime il movimento alla forma del formaggio mediante l’utilizzo di una cordicella. In questo caso il termine tiruocciola darebbe l’idea del gioco, nonché del gesto atletico compiuto dal giocatore durante il lancio.

A questo punto il problema sembrerebbe risolto, se non fosse per chi sostiene accanitamente che il nome vero del gioco è quello di “pezza ’u casu”[34].

Dopo tante ricerche, questo termine appare il più caratteristico sia per la sua affermazione nell’idioma popolare e sia per il suo immediato riferimento alla forma circolare del formaggio pecorino, oggetto stesso del gioco e premio per il vincitore.

Accanto al problema del nome da attribuire al gioco, come sopra già detto, vi è quello di stabilire con esattezza il luogo dove esso si svolgeva.

A tal proposito, infatti, sono in molti ad attribuire il primato del gioco della “pezza ’u casu” al rione “Piano” in quanto trattasi di una zona periferica del paese collegata direttamente con la campagna e con i produttori di formaggio. Le testimonianze raccolte fra gli anziani del luogo raccontano, infatti, di pastori che una volta l’anno, nel periodo di Carnevale, si recavano in paese dalla campagna e, incontrandosi con i paesani, proponevano loro di sfidarli al gioco della “pezza ’u casu”[35]. Il formaggio naturalmente era messo a disposizione dal pastore stesso, che, in caso di sconfitta, doveva cedere l’intera forma.

Spesso però a farne le spese erano i paesani, i quali dopo aver perso, dovevano pagare in denaro il valore della forma del formaggio al pastore.

Ancora oggi il gioco si svolge nel rione “Piano” in prossimità del ponte della “Petrarella” tuttavia vi sono numerose testimonianze secondo le quali esso si svolgeva anche in altri luoghi. In effetti i testimoni della fonte storica sopracitata ci rivelano che si trovavano a svolgere il gioco nel rione S. to Zaccaria.

Altri ancora attestano la presenza e lo svolgimento del gioco della “pezza ’u casu” in Soverano, località periferica, un tempo meta di grossisti e venditori di bestiame nonché luogo di svolgimento dell’omonima fiera che rappresentò fino a non molto tempo fa uno dei pilastri dell’economia bisignanese.

La presenza, quindi, del gioco in molti altri luoghi del territorio bisignanese è indubbia e lo stesso discorso vale per i paesi limitrofi come Cervicati, Mongrassano, Torano, Rota Greca, Vaccarizzo, Marinello, S. Marco Argentano, ecc., nei quali il gioco ritrae tutti i caratteri del nostro, fatti salvi il percorso e il modo di trattenere il laccio al momento del lancio. In effetti, rispetto agli altri paesi limitrofi Bisignano conserva sia il primato dei campioni che quello delle vittorie in tale gioco.

L’espediente utilizzato dai giocatori bisignanesi era, infatti, quello di legarsi il laccio al polso anziché al dito mignolo imprimendo cosi al cacio maggiore forza nel lancio superando, con molta facilità, gli avversari.

Il gioco della “pezza ’u casu”, oltre ad essere un gioco di squadra era soprattutto un gioco di abilità personale che richiedeva allenamento e concentrazione. Infatti, molto importante per il giocatore era stabilire con sufficiente anticipo l’angolo di tiro, lo stato del percorso e l’effetto da dare alla forma del formaggio.

Fra i personaggi più famosi di un tempo, campioni indiscussi del gioco della “pezza ’u casu” in Bisignano ricordiamo: Nicoletti Alfonzo detto ’u Guappu, Nicoletti Michele detto ’u carcararu, Gennaro Iaquinta detto ’i gannamaria, Gaetano detto ’u ciucciu, Francesco detto ’u ciardullu, Alessandro Ammirata detto ’u monachiallu. Fra i campioni più attuali ricordiamo invece: Francesco Groccia detto ’u carcararu, Rosario Dima detto mucinella, Giuseppe Arturi detto ’u gattu, Mario Ripoli detto pupillu, Giuseppe Todarelli detto malagurio e Littera Stanislao detto ’u cangu.

Il gioco della “pezza ’u casu” in Bisignano era molto popolare. Esso, infatti, richiamava, tanti spettatori, donne, uomini, bambini ed anziani. Persino i nobili accorrevano a guardare incuriositi.

Da alcune testimonianze orali, infatti, risulta evidente la loro presenza.

A tal proposito Antonio Iannace ci riferisce quanto segue:

Tutti accorrevano ad assistere e si attendeva lo spettacolo giocando a carte, bevendo vino, scherzando e chiacchierando. Al gioco assisteva anche la gente nobile del paese. Mi ricordo ancora quando Don Serafino Rende, dopo essere salito su di un cocuzzolo di terra, si divertiva a tirare fichi d’india contro i passanti. C’era chi seguiva il gioco in ogni particolare e chi, invece, durante il percorso si fermava a discutere con gli amici che incontrava[36].

In questa testimonianza è raccolto tutto il significato della fusione tra gioco e festa pagana in cui si ribaltavano i ruoli sociali e nello scherzo giocoso il ricco cercava di amalgamarsi al povero e viceversa, ma solo durante la cerimonia, per poi l’indomani ritrovarsi a svolgere nuovamente ognuno il proprio ruolo sociale.

Oggi il gioco della “pezza ’u casu”, nel paese, ricopre ancora un ruolo importantissimo, anche se solo fra i giocatori che lo praticano.

La tramontata popolarità del gioco, come è accaduto anche in altri paesi limitrofi, probabilmente è da ricercarsi nelle nuove esigenze che la società moderna ha imposto ad ogni individuo.

In poche parole anche se per molti giocatori la “pezza ’u casu”, oggi, in Bisignano costituisce un vero e proprio sport , esso non è riuscito ad imporsi ad altri tipi di sport più moderni che hanno richiamato l’attenzione dei giovani bisignanesi come per esempio il calcio, o la pallavolo.

La popolarità indiscussa del calcio e della pallavolo nel nostro paese è testimoniata dai documenti che ne attestano la storica origine e la crescente partecipazione nel tempo da parte del pubblico cosa che non è accaduta con il gioco della “pezza ’u casu” che probabilmente continuerà ad appartenere al passato e ad una società con esigenze diverse da quella odierna.

Oggi, proporre una edizione tutta nuova del gioco con le regole di un tempo serve solo a garantirne la sopravvivenza, anche se non si può pretendere di tornare alla popolarità di un tempo o di recuperare in modo diverso, i bisogni e le spinte emotive che, cinquanta o magari cento anni fa, portavano la gente a partecipare.

A questo punto ci sembra opportuno mettere a confronto le modalità con cui si svolgeva il gioco un tempo e quelle con cui si svolge oggi per riscontrare affinità e cambiamenti.

Una volta per giocare alla “pezza ’u casu” ogni momento era buono purché si aveva a disposizione uno spiazzo, una forma di formaggio pecorino ed i soldi per poterla comprare.

Il gioco si svolgeva nel tempo libero, soprattutto il sabato o la domenica.

Solitamente si iniziava verso le due del pomeriggio e si proseguiva fino a notte inoltrata con la luce delle lanterne.

Oggi il gioco rivive in un torneo organizzato dalla pro loco del paese e ripropone le stesse regole di un tempo anche se si svolge su di un tracciato diverso[37].

Gli strumenti per lo svolgimento del gioco sono rimasti sempre quelli di un volta: un laccio lungo circa due metri (’u lazzu), un pezzetto di legno (’u marrabbiallu), e la forma del formaggio o in sostituzione di questa la ruocciola.

Il gioco si svolge in due manche e richiede un minimo di due giocatori che possono avanzare fino a sei per squadra.

Il giocatore disegnato dal tocco compie il primo lancio, tira poi il secondo, il tiro successivo spetta a chi ha coperto meno percorso.

Se durante la gara la forma del formaggio dovesse uscire dal percorso si procede alla segnatura del punto in cui essa è uscita e si procede al tiro successivo.

Se a causa di un lancio sbagliato la forma del formaggio dovesse tornare indietro lungo il percorso fino a oltrepassare la linea di partenza il giocatore, incaricato del nuovo tiro, dovrà partire dal punto in cui l’oggetto di gioco si era fermato.

Nel caso, invece, la forma del formaggio dovesse oltrepassare la linea di arrivo la vittoria spetterà al giocatore che l’ha mandata più lontana.

Inoltre se durante la gara la forma del formaggio dovesse rompersi si procede alla sostituzione di questa con una forma di legno di uguali dimensioni detta “ruocciola”.

Vince il gioco chi con un numero inferiore di tiri o “botte” arriva prima a tagliare il traguardo e ad aggiudicarsi naturalmente un maggior numero di manche.

Rispetto ad un tempo il gioco della “pezza ’u casu” ripropone solo delle piccole varianti che però non trasformano la regola.

Questa metamorfosi riguarda, invece, soprattutto la sfera sociale e istituzionale del gioco come già in precedenza più volte detto.

Fino a non molto tempo addietro, infatti, il gioco della “pezza ’u casu” raccoglieva intorno a se una grande massa di partecipanti, mentre oggi l’interesse da parte del cittadino bisignanese nei confronti di questo “sport” è sensibilmente diminuito anche a causa dello scarso interessamento svolto dall’amministrazione locale.

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[1] Cfr. D. Leone, Le origini della festa del carnevale, in <<Calabria Letteraria>>, gen./mar., n. 1-3, 1979, pp. 43-46.

[2] Cfr. G. B. Bronzini, Percorsi demoantropologici nel medioevo magico religioso. In G. Mazzoleni A. Santiemma-V. Lattanzi (a cura di) Antropologia Storica. Materiali per un dibattito. Euroma- La goliardica, Roma, 1995, pp. 168-169.

[3] Cfr. T. Guzzo, Il Carnevale che viene da lontano, in <<Calabria>>, A. XIV, n. 10, febbraio, 1986, pp.49-51.

[4] Cfr. R. Caillois, Teoria della festa, in Il Colleggio di Sociologia. 1937-1939 (a cura di) Denis Hollier, Boringhieri, Torino, 1991, pp. 387-388.

[5] Cfr. J. G. Frazer, Il ramo d’oro, Newton Copton, Roma 1992, p. 649.

[6] Cfr. E. De Martino, Morte e pianto rituale, Bollati Boringhieri, 1997, Torino, p.41; Cfr. D. Leone, Le origini della festa del carnevale, in <<Calabria Letteraria>>, gen./mar., n. 1-3, 1979, pp. 43-46; Cfr. F. Pitaro, Vita e morte di carnevale nelle farse e nelle credenze sconosciute, in <<Calabria Sconosciuta>>, gen./mar., n. 37, 1987, pp. 75-78.

[7] Cfr. J. G. Frazer, Il ramo d’oro, Newton Copton, Roma 1992, p. 651.

[8] Cfr. R. Caillois, Teoria della festa, in Il Colleggio di Sociologia. 1937-1939 (a cura di) Denis Hollier, Boringhieri, Torino, 1991, p.388.

[9] Cfr. R. Caillois, Teoria della festa, in Il Colleggio di Sociologia. 1937-1939 (a cura di) Denis Hollier, Boringhieri, Torino, 1991, p.388.

[10] Cfr. M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Einaudi, Torino 1979, pp. 6-17.

[11] Cfr. R. Caillois, Teoria della festa, in Il Colleggio di Sociologia. 1937-1939 (a cura di) Denis Hollier, Boringhieri, Torino, 1991, p.388.

 

[12] Cfr. M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Einaudi, Torino, 1979, p. 9.

[13] Cfr. M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Einaudi, Torino, 1979, p. 10.

[14] Cfr. M. Barberio, Le maschere calabresi, in <<Calabria Letteraria>>, gen./mar., n. 1-2-3, 1987, pp. 114-115.

[15] Cfr. M. Rinaldo, “Carnem levare” miti e ironie, in <<Calabria>>, A. XXII, n. 101, febbraio 1994, pp. 114-115

[16] Cfr. Sgrò D. A., Le farse carnascialesche, in <<Calabria Sconosciuta>>, gen./mar., n. 61, 1994, pp. 81-84.

[17] Cfr. D. Del Corvo, Letteratura greca, Principato, Milano 1988, pp. 150-154.

[18] Cfr. D. Leone, Le origini della festa del carnevale, in <<Calabria Letteraria>>, gen./mar., n. 1-3, 1979, pp. 49-51.

[19] Cfr. D. Altobelli e M. di Geromino, Il Carnevale, in sito Internet: Http://www.sabina.it/tradizioni/carnevale.htlm, 1999

[20] Cfr. E. De Martino, La terra del rimorso, ……p. 210.

[21] Cfr. G. Gallo, Una giostra carnevalesca in Calabria, in <<folklore>>, ott./dic., n. 4, 1927, pp. 15-17.

[22] Cfr. G. Gallo, Una giostra carnevalesca in Calabria, in <<folklore>>, ott./dic., n. 4, 1927, pp. 15-17.

[23] Cfr. G. Gallo, Una giostra carnevalesca in Calabria, in <<folklore>>, ott./dic., n. 4, 1927, pp. 15-17.

[24] Cfr. O. Armando, Da Carnevale a Pasqua, in <<Calabria Letteraria>>, gen./mar., n. 1-3, 1991, pp. 71-72.

[25] Cfr. R. Curìa, Tradizioni popolari in Bisignano, Luigi Pellegrini, Cosenza 1994; pp. 61-63.

[26] Cfr. A. Julia, Il Carnevale in Acri, in <<La Calabria>>, A. VII, n. 6, 15 febbraio 1895, pp. 50-55.

[27] Cfr. A. Julia, Il Carnevale in Acri, in <<La Calabria>>, A. VII, n. 6, 15 febbraio 1895, pp. 50-55.

[28] Cfr. R. Curìa, Tradizioni popolari in Bisignano, Luigi Pellegrini, Cosenza 1994; pp. 61-63.

[29] Cfr. A. Julia, Il Carnevale in Acri, in <<La Calabria>>, A. VII,  15 febbraio 1895, n. 6; pp. 50-55.

[30] Cfr. R. Curìa, Tradizioni popolari in Bisignano, Pellegrini, Cosenza, 1994, p. 63.

[31] Cfr. R. D’Alessandro, Atto della Corte Arcivescovile di Bisignano, 1776 in <<archivio privato>>.

[32] Cfr. R. D’Alessandro, Atto della Corte Arcivescovile di Bisignano, 1776 in <<archivio privato>>.

[33] Cfr. R. Curìa, Tradizioni popolari in Bisignano, Pellegrini, Cosenza, 1994, pp. 61-63.

[34] Cfr. Intervista al Sig. F. Amodio realizzata il 28 febbraio 1999 a Bisignano, in <<appendice delle interviste>>.

[35] Cfr. Intervista al Sig. A. Iannace realizzata il 21 febbraio 1999 a Bisignano, <<in appendice delle interviste>>.

[36] Cfr. A. Iannace, intervista realizzata il 21 febbraio 1999 a Bisignano, in <<appendice delle interviste>>.

[37] Un tempo la linea di partenza del gioco era la porta di Giuseppe detto ’u piullu dove vi era un muro con tre buchi, il terzo dei quali segnava la partenza. Da qui si proseguiva fino al ponte della “petrarella”, dove una grande pianta di ulivo, sul ciglio destro della strada, indicava il punto di arrivo. Oggi, per questioni di spazio e per la presenza della strada, delle macchine e delle case, il percorso è stato spostato più in periferia. Il punto di partenza è contraddistinto da una linea bianca, disegnata sull’asfalto, in prossimità del ponte della “petrarella” mentre, l’arrivo si trova in prossimità della prima curva lungo la strada stessa che porta a S. Sofia D’Epiro.