Barca e Berlino … forse era destino

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Il calcio, come tutte le arti, ha un significato intrinseco dal valore inestimabile, metafora esatta della vita quotidiana. Basta solo riuscire a comprenderlo.

juve96E’ il 22 maggio del 1996 quando Vladimir Jugovic mette alle spalle dell’olandese Van der Sar il quarto rigore della serie. E’ il delirio. La Juve è Campione d’Europa! Ricordo la corsa per casa e la gioia incontenibile in quegli occhi da bambino che a distanza di diciannove anni non hanno smesso di emozionarsi, da innamorato del gioco più bello del mondo. Spesso mi capita di ascoltare solite frasi fatte, su quanto il calcio sia corrotto, malato, su quanto sia fuorviante, anche infantile, seguire con palpitante partecipazione le gesta di ventidue ragazzotti che corrono dietro ad una palla.

“In questa famiglia tutti si preoccupano delle stesse persone e sperano le stesse cose. Cosa c’è di infantile in questo?” diceva Nick Hornby, nel suo celebre Febbre a 90 a proposito dell’esser membro di una tifoseria, aldilà del fatto, aggiungo io, che si riesca a seguire la propria squadra allo stadio o che ci si riunisca con gli amici davanti alla tv per vederla. Non ci trovo nulla di diseducativo, se si guarda al suo aspetto agonistico, al valore della competizione, alla feste di popolo che riesce a creare, allontanandosi in maniera chiara e netta da ogni bega del becero tifo, che usa il pallone solo per sfogare i propri istinti più bruti.

Fu magica quella notte romana di 19 anni fa, con la mia amata Juve, che diventa regina d’Europa. Gioia allo stato puro, toccato il cielo con un dito. Nessuno però, avrebbe mai potuto immaginare, cosa sarebbe successo negli anni a venire e che quella gioia, sarebbe rimasta l’ultima festa europea. Forse fino a sabato. Sì, perché sabato le cose potrebbero cambiare. In mezzo prima del calcio d’inizio di Berlino, tanti pensieri mi frulleranno in testa. Le tre finali perse, Borussia, Real, Milan: Monaco, Amsterdam, Manchester. E quando l’attesa cominciava a diventare insostenibile, la mazzata. Quel 26 luglio 2006, che ufficializzava i tristi latrati che da mesi si udivano nell’aria bianconera: la retrocessione in B e i due scudetti revocati, per una ferita che a distanza di nove anni, fa fatica a rimarginarsi e che trova come unica spiegazione la sola “colpa” di essere stati i più bravi, almeno in Italia.

Era l’estate del titolo mondiale, vinto a Berlino dalla nazionaljuve di Lippi, proprio mentre la Juve, quella bianconera, sarebbe sprofondata di lì a pochi giorni.

Era il 2006, dicevamo, e la Champions quell’anno la vinceva il Barcellona di Ronaldinho, nella quale s’affacciavano i giovani Messi e Iniesta, colonne di oggi. Pensavo, quella sera, dopo il gol di Belletti, a quando noi juventini avremmo potuto vivere una gioia simile, l’inizio per loro, di un ciclo che in quasi 10 anni li ha portati a vincere tutto e ad essere quasi universalmente riconosciuti, come la squadra più forte di tutti i tempi.

Berlino e il Barcellona, due nomi che ritornano a distanza di nove anni, mentre noi in questi nove anni, abbiamo risalito la china, passo dopo passo, grazie a una grande dirigenza, a un grande allenatore, e a degli splendidi uomini prima ancora che calciatori.

Chissà se Gigi ci penserà, insieme al Chiello, insieme a Pavel, prima del calcio d’inizio di Berlino, a quel Martina Franca – Juventus del 19 agosto 2006, 64esimi di Coppa Italia, la prima del dopo-farsa.

Dal Martina Franca al Barcellona, in quello stadio tanto caro, sarebbe come un cerchio che si chiude. Forse è questo che mi fa stare un po’ più sereno, se penso a sabato.

Il calcio sa essere anche questo. Basta solo riuscire a comprenderlo.

Francesco Iaquinta