L’irrilevanza della politica e la prevalenza del cretino

Letture: 2628

A che serve la politica? Me lo chiedo ogni santo giorno e non trovo risposte. A che serve se non ad alimentare il chiacchiericcio querulo e stanco che si ripete sempre uguale a se stesso nei talk show, nei social, sui giornali? In un mantra autoreferenziale che tutto ammanta, fra dilettantismo ed incapacità cementata negli anni, nell’orizzonte d’una percezione della realtà hic et nunc, al di là di soluzioni immediate ma procrastinando tutto sine die. Dal centro alle periferie. Dal governo nazionale, ai governi regionali, alle amministrazioni locali.

Intanto, mentre l’intellighenzia autoctona s’interroga e si rintuzza su facebook su chi sia il più (anti)fascista o (anti)razzista del reame o su quanta sia crassa e contagiosa  l’ignoranza della nuova politica, la politica locale non si smentisce e prosegue immemore ed imperterrita nella sua solita rotta. Come ai vecchi tempi di Lo Giudice padre. Come sempre.

I più, (ignari, anzichenò, dei vecchi compagni accorsi in massa ad applaudire Almirante o nostalgici dei buoni e vecchi tempi quando c’era Lui) da follower indefessi si scatenano sul popolo bue sempre dalla parte sbagliata, emulando il dottor Kien (in Auto da fé di Elias Canetti), educandosi alla cecità, rassegnati nel proprio bozzolo di convinzioni e suscettibilità ed impossibilitati a giudicare se non per convenienza, per quieto vivere, se non con il metro dei distinguo e delle elusioni.

Spesso ho scritto di “democrazia morta e seppellita”, di continuità ed immutabilità nell’amministrare, di “inerzia culturale”, di Bisignanesi opportunisti ed infingardi, tratteggiando un quadro apocalittico ed angosciante, una sorta di tabula rasa, fermamente convinto che non si sfugga da quest’ottica impietosa per chi si costringe a non guardar al di là del proprio smartphone.

L’energia per il cambiamento appare ormai dissipata in mille rivoli senza importanza e l’attuale amministrazione appare impantanata nell’ordinaria amministrazione, fra sussulti lillipuziani e assalti reiterati alla dignità dei cittadini. L’economia locale si trascina ed arranca nell’industria del mattone e in un’agricoltura dopata come o peggio di trenta, quaranta anni fa, come se il territorio potesse sopportare altre angherie ed altri sfracelli. Mentre il centro abitato rivela il suo lato spettrale, la periferia e le campagne s’appalesano nel loro raggelante processo di mostrificazione senza vie di fuga. Il futuro è una dimensione temporale che non appartiene più ai bisignanesi sospesi fra denatalità, emigrazione e rassegnazione al (meno) peggio. La politica annaspa e si arrabatta fra ritorno al passato (vedi il circolo Forza Italia & Calabria che vuoi) ed allucinate ed allucinanti tentazioni leghiste-salviniane, comparsate pentastellate, cumparsite, quadriglie, giri di valzer di un democristianume vario(pinto) e un consiglio comunale abbarbicato, inutilmente, lì sul Cucumazzo. Verrebbe da chiedersi: a che serve la politica ma soprattutto chi serve?

Se questo è in estrema sintesi il quadro locale cosa dire del governo centrale? Il cambiamento promesso e millantato è una chimera irraggiungibile in un orizzonte di eventi tra recessione e secessione di fatto. La lega rappresenta la sola politica strutturata sul territorio, presente nelle istituzioni da quasi un trentennio, ma capace di ammaliare l’elettorato grazie ad una propaganda (di cui è artefice e beneficiaria) pervasiva e ossessiva, a tema unico o quasi: prima gli italiani! Quali italiani, si dirà. A prestare orecchio ed occhio ai sondaggi circa un quaranta per cento dei maggiorenni o forse più. E se la legge delle probabilità ha un senso è da escludere siano per la loro totalità tutti dei cretini, se non altro per non condannare una qualsivoglia forma di sinistra all’estinzione definitiva. Per lo più si dirà, allora, degli italiani medi, con tutti i loro tanti vizi e le poche virtù. Ci sarebbe da intendersi però sul significato della parola medio, senza svicolare nei grandi ingegni del passato e sui piccoli passi del presente. Ha senso parlare ancora di classe media? Ha senso parlare ancora di élite? E le classi subalterne quali voci hanno in capitolo? È soprattutto è possibile parlare di classi? Non si tratta solo di reddito o della sua mancanza, ma anche di omologazione culturale al ribasso, senilità della popolazione, capitalismo straccione e piagnone e dell’antica arte d’arrangiarsi italica per la salvaguardia del proprio posto al sole. La lega non solo detta l’agenda politica ma si traina dietro tutta l’informazione e il resto della politica e con essa i Cinquestelle. Basta il reddito di cittadinanza per nobilitare la loro presenza al governo? Basta tagliare gli stipendi dei parlamentari o di qualche star della tivù per gridare al miracolo del cambiamento? Basta qualche comparsata in tivù di Di Maio o del suo alter ego per accorgersi che il movimento Cinquestelle non s’è rimangiato tutto?

Beninteso da ottimista impenitente non credo che l’attuale governo gialloverde sia il peggiore della storia repubblicana. L’Italia ha conosciuto, in più occasioni, fasti nefasti e altri accadimenti da repubblica delle banane. Ho un’incrollabile fiducia nel futuro. Credo ci siano ampi margini miglioramento: si può fare ancora peggio.

Rosario Lombardo