Fratelli Cervi, una storia di Liberazione e Resistenza

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*testo a cura di Giuseppe Donadio

Cos’è il dolore, quando tutto intorno è dolore? Quando la guerra spazza via ogni tentativo di ridare alla vita la sua dignità, di riconsegnare agli uomini il loro vero essere tali e non perenni gladiatori votati alla ricerca della morte? Il dolore è una reazione forte, a volte anche una rassegnata difesa che ci portiamo appresso per sopportare, per sopravvivere, per continuare a vivere. E a raccontare: infatti, questa è la storia di un gruppo di ragazzi, precisamente sette fratelli, che sono l’ennesima prova del massacro compiuto dalle truppe nazi-fasciste.

Sono sette ragazzi cresciuti nei campi della pianura padana: Aldo è quello che legge molto, che s’interessa di Gorkij e Victor Hugo e si abbona anche a riviste d’agricoltura. Studia un poco d’agronomia e pensa che forse occorre livellare i campi per evitare la stagnazione dell’acqua e migliorare il raccolto d’erba medica. Cosa che puntualmente avviene. C’è tanta povertà in questo mondo contadino, ma c’è tanta fierezza e la coscienza di quello che succede nell’Italia d’allora.

La dittatura fascista imperversa in ogni dove e i fratelli Cervi sono profondamente legati all’idea di libertà che Alcide insegna loro: il padre li educa cristianamente, ma insegna loro che “… protestava Cristo e protestava Lenin, per questo non bisogna mai avere paura”. Così disprezzano la violenza delle squadracce di Mussolini e si danno all’attività clandestina antifascista, mentre le Case del Popolo bruciano sotto i loro occhi, i libri che divulgano le idee materialiste sono gettati alle fiamme e così i ritratti di Marx ed Engels. L’aria della pianura si fa triste, ma la vita scorre e la speranza che la guerra finisca presto è in tutti gli uomini e le donne. Mentre si compiono le efferatezze del regime littorio, Ettore, Ovidio, Agostino, Ferdinando, Aldo, Antenore e Gelindo lavorano attivamente per la Resistenza, nelle fila comuniste. Si scambiano tra loro le informazioni e mantengono contatti con le nascenti formazioni partigiane.

Racconta Alcide Cervi che il 25 luglio 1943 si trovavano nei campi, quando giunse la notizia che il Gran Consiglio del fascismo aveva sfiduciato Mussolini e il re lo ha fatto arrestare a Villa Savoia. I colori della terra, le spighe del grano e le fronde degli alberi cambiano colore agli occhi della libertà ritrovata. Sembra la notte della presa della Bastiglia: si canta, si balla e ci s’illude per un attimo che la guerra sia veramente finita, che la dittatura a breve sarà messa in soffitta e che il popolo italiano troverà un nuovo percorso di vita, magari democratica.

I Cervi e la gente del posto si dirigono il giorno dopo al carcere San Tommaso e chiedono la liberazione degli antifascisti reclusi: escono visi sofferenti, sono ossa che camminano e cadono nelle braccia di quelli che si sentono uomini liberi. Aldo riporta tutti alla realtà e ricorda la frase del Maresciallo Badoglio, nuovo capo del Governo Italiano: “…la guerra continua a fianco dei tedeschi…”. Ma lo stesso pragmatico Aldo non riesce ad affidarsi al pessimismo e propone al padre di offrire una pastasciutta a tutto il paese. La farina c’è in casa, il formaggio lo prendono alla latteria e lo scambiano con il burro e fanno quintali di pasta insieme con altre famiglie. Anche i carabinieri regi si mettono a mangiare: i fascisti sono spariti come gli assassini nella torbida notte avvolta da una nebbia storica fatta di massacri e genocidi. Ma è una sparizione momentanea, nell’attesa che sul tricolore campeggi l’aquila imperiale di Roma…

I fratelli Cervi danno ospitalità a numerosi combattenti per la libertà, e la lotta partigiana s’intensifica. Ma la liberazione tarda a venire: gli Alleati angloamericani sono fermi sulla linea Gustav e sembra non si muovano di un millimetro. La Repubblica di Salò, fantoccio statale di Hitler, ripristina repentinamente il fascismo decaduto e chiama alle armi tutti i giovani.

Chi diserta, chi va sui monti e la Resistenza prende corpo: si formano i GAP (Gruppi di Azione Partigiana) che agiscono nelle città e i Comandi piazza del CLN (Comitato di Liberazione Nazionale). Nella casa dei Cervi i prigionieri di guerra ospitati sono circa una trentina. Lo stesso Alcide ammette che sono troppi e dice ai figli che l’ordine del CLN è di far sfollare i prigionieri, poiché i rischi di rappresaglie fasciste sono concreti. Ma è sempre Aldo a prendere in mano la situazione: al padre ricorda che ormai il rischio c’è e che per i prigionieri è meglio restare nel reggiano a combattere con i partigiani.

È in quel frangente di Novembre del ’43 che Aldo rivede una sua cara amica, Lucia e le chiede di insegnargli una canzone: “Ché se mi fucilano voglio cantarla prima di morire”. La ragazza gli risponde inquieta: “La canzone te la insegno, ma per vivere”, ricorda Alcide Cervi.

E qui si posano le parole quasi profetiche di Aldo: “Vorrei tanto vivere e tanto amare, ma viene il tempo che a ciascuno verrà chiesto il massimo”. Lucia scherza un poco su queste parole. Tenta di sdrammatizzare e insegna ad Aldo la canzone che chiama il proletariato all’unità e non più alla divisione d’un tempo quando nella Comune di Parigi la borghesia schiacciò nel sangue il primo esperimento di governo operaio e socialista. Dalla casa dei Cervi partono gli ultimi prigionieri: restano due russi, un inglese, un sudafricano e un australiano. I fascisti lanciano ai Cervi molti avvertimenti: li minacciano e fanno capire loro che la resa dei conti si avvicina. Quel Novembre è fatto di pioggia a dirotto. È la sera del 25 e in casa dormono tutti, mentre fuori vengono sparati dei colpi di fucile e il bestiame si sveglia. Una voce fa comprendere a tutti cosa succede: “Cervi, arrendetevi!”. Ma i fratelli non solo non si arrendono, ma prendono in mano le armi. La madre dei ragazzi, Genoveffa si è rimpicciolita in un angolo di una stanza, muta e pallida e tenta di calmare a poco a poco i bambini. Aldo ha un mitra e fa fuoco sui fascisti. Un fuoco che dura pochi minuti. Le munizioni finiscono, la rabbia cresce: le camicie nere danno fuoco alle stalle. Papà Cervi vorrebbe scendere e affrontare gli squadristi ma Aldo lo frena pensando alle donne e ai bambini…

“Meglio arrendersi”, dice al padre. Racconta Alcide: “Così scendiamo le scale, piano per l’ultima volta. Le donne si aggrappano alle spalle degli uomini, qualcuno piange. Agostino prende in braccio il suo bambino e lo bacia”. Con sangue freddo Aldo riunisce tutti nell’aia e ordina ai fratelli di non prendersi nessuna responsabilità. Toccherà a lui e a Gelindo questo compito. I fascisti asserragliati attorno alla cascina sono una cinquantina. Fanno salire sui camion i sette fratelli e il padre. Antenore si raccomanda ai suoi tre figlioli: “Non lasciate mai la mamma sola, e non fate arrabbiare la nonna. Papà torna presto”. Il più vecchio dei fratelli ha 42 anni, il più giovane soltanto 22!

Quando aprono la porta della loro cella, i fascisti urlano che escano fuori. Alcide esce in testa, ma le camicie nere lo ricacciano indietro. “Tu che vuoi, sei vecchio!”. “Sono il capofamiglia, e voglio stare insieme ai miei figli”. L’esecuzione viene rimandata di un giorno. All’alba fanno uscire i sette giovani con la scusa di condurli a Parma per il processo. Alcide fa appena in tempo a salutarli e rimane solo nella cella. Lo rinchiudono così insieme con un avvocato antifascista, Manlio Mariani e ad altri “contrari al regime”. A queste persone Alcide Cervi racconta come sono andate le cose: racconta anche del rifiuto dei suoi figli di entrare a far parte della Guardia Repubblicana fascista. Si dice certo che se li condurranno in Germania a lavorare supereranno le privazioni e le fatiche. “I mie figli sono contadini forti”, dice all’avvocato. “Torneranno”. Non sarà purtroppo così: li conducono invece al tiro a segno che c’è nelle vicinanze. Prima dell’esecuzione uno di loro si toglie il maglione. Lo sentono dire che potrà servire a qualcun’altro se non sarà forato dalle pallottole…

Poi un velo di ghiaccio cala sulla pianura, sulla casa e su papà Cervi che viene lasciato libero di tornare a casa. I suoi figlioli sono stati freddati dal plotone. Alcide abbraccia quello che resta della grande famiglia e la moglie comprende ciò che è accaduto: “I nostri figli non torneranno più. Sono stati fucilati tutti e sette.” dice al marito. Lui, attonito, smarrito, comprende allora che Aldo e i suoi sei fratelli sono stati assassinati dai fascisti. Piange papà Cervi e le sue lacrime segnano uno spartiacque netto: la fine della speranza, la fine di tutto. Tutto, infatti, sembra crollato, distrutto, annichilito e sepolto sotto un cumulo di macerie morali e materiali.

Un anno dopo la tragedia dei sette fratelli Cervi, la madre Genoveffa, distrutta dal dolore, muore. Alcide rimane ancora più solo e resta lui, memoria ferma e sicura, a raccontare ai nipoti perché i loro padri e i loro zii sono morti. Perché non hanno accettato di piegarsi alla dittatura fascista, perché erano antifascisti e comunisti.

Sandro Pertini scriverà che la storia dei fratelli Cervi è “una testimonianza della perennità dei valori della Resistenza, fondamento del nostro consorzio civile”.