Bisignanu bisignusu. Cronaca estemporanea di un’ordinaria mattinata in fila

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È soprattutto in fila che il bisignanese tipo da tutto il meglio di se. Fila per modo di dire, s’intende. Più che altro un assembramento, la calca, un sit-in, un picchettaggio sotto mentite spoglie. Davanti alla cassa del supermarket superaffollato, alla posta o davanti allo sportello di qualsiasi altro ufficio specie se pubblico, in banca, dal medico.

Ticket in mano, mollemente assittatu o all’in piedi (ad esempio nel bunker del CUP di Collina Castello) lo sguardo perso, smorto, fisso sul numero del display che proprio non si decide a scattare.

C’è chi va avanti indietro e chi ‘i scuollu i scuollu s’attarda, scodinzolando appresso al primo impiegato o facente funzione che acciuffa al volo: — vi vulissa diri

C’è chi si recita il rosario per paura d’arrivare tardi, impacciato o male in arnese, davanti al dio creatore in persona.

C’è chi s’acquatta pronto ad approfittare della prima distrazione.

C’è chi sgrana gli occhi in cerca d’un appiglio, d’un santo cui votarsi.

C’è chi (s)parla, chini gala, chi si spazientisce, chi si gratta, chi, a torto o a ragione, se la piglia coll’impiegato sventurato e chi con che c’è l’ha messo lì l’imbranato. Ed altri a tuonare che non c’è linea, che i computer sono lenti, che i digitatori son sonnolenti, che il tal dei tali è sempre assente oppure come se non ci fosse, c’u sinnaccu, cumu sempi, si nni frica…

C’è chi inscena con la mogliettina in ghingheri la consueta tiritera: — E tu mo’ vu aspettari?— E gli altri, come ubbidendo ad un ancestrale richiamo o col solo proposito di annullare l’eventuale minaccia a cercare di ripristinare la fila che non c’è mai stata. Quasi tutti, all’unisono, tuonassero: — è n’ura c’aspietti. …Ca mo’vieni tu e mi vu ijari ppi fiss’a ‘mmia! — La mogliettina svampita a sgomitare, a far finta di niente ed imperterrita a chiedere al marito mansueto: — C’è Giuvannu? Va’ viri va’!

C’è chi si sbraccia e chi saluta oltre lo steccato, chi strizza l’occhietto e chi s’affaccia e dice: —ca pu’ passu.

C’è chi la fila la nemmeno la vede, e di filato raggiunge l’agognata meta per una via laterale, per l’andito privilegiato, perché semplicemente tallona l’impiegato maldestro che s’è avventurato dall’altro parte della staccionata. E tu con quel cazzo di bigliettino in mano, imperturbabile e risoluto, ad aspettare che il tuo fottuto numero finalmente scatti.

C’è chi si fa precedere da una telefonata, da un caffe o carcadè, da un essemmesse, un complice o una cartolina teleguidata.

C’è chi non si rassegna e aspetta il proprio turno o almeno fa finta.

C’è chi si ostina, chi s’intrufola e bisbigliando chiede, assevera, mente: — ‘na carta, quandu ci rugnu ‘sa carta. — Oppure: — ‘na domanda, sulu ‘na domanda.» Oppure: «quand’addimmanni quannu puozzu passari. — Oppure, impunemente, si presenta con il caffettino del bar nel bicchierino di plastica, pugliu pugliu in palma di mano, facendosi largo con una gimcana encomiabile: — quandu ci rugnu ssu cafè ca sinnò si rifridda. E l’impiegato nel frangente poco sventurato a ringraziare ossequioso strizzandogli l’occhietto: — mi ci voleva proprio ssu cafè! — E pu’ con melliflua inclinazione: — a ra casa tutto a posto?

Tu, assittatu m’pizzu a na seggia di pivvuccì o ancora all’in piedi, a guardarti torno torno stupefatto e finalmente a chiedere: — ma quannu scatta ssu numaru?

Gli altri a squadrarti circospetti, ad ammiccare sornioni l’un l’altro, e con vocina strafottente a sussurrarti: — è n’annu a marzu ca simi fermi a 29.

Rosario Lombardo.