A proposito di Enzo Siciliano

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In questo mese ricorre il decimo anniversario dell’intitolazione dell’Istituto di Scuola Superiore di Bisignano ad Enzo Siciliano.

Sul Web ho rinvenuto un articolo, “Enzo siciliano e le sue origini calabresi “,postato in data 15 febbr.2015 a firma di Franco Falvo, giornalista pubblicista, collaboratore del “Quotidiano della Calabria” ,che rivendica le origini Ferolitane di Enzo Siciliano.

Su qualcosa siamo d’accordo: Siciliano ha certamente avuto un legame particolare con la Calabria, ma era uno scrittore, giornalista, intellettuale, la cui formazione culturale era avvenuta a Roma.

La Calabria è presente in diversi suoi libri, ma non era originario di Feroleto.

Sua madre, Ienzi Giuseppina, era originaria di Feroleto antico. Conobbe il padre, Natale, il settimo di 9 figli, 6 maschi e tre femmine, in visita al fratello Vincenzo, comandante della locale stazione dei Carabinieri e si sposarono il 24 ottobre 1924, dopo due anni di fidanzamento.

“Lo sposò”, racconta E.S. in mia madre amava il mare, “per un atto di coraggio”.  Si era innamorata di lui a prima vista e voleva abbandonare Feroleto.

Natale Siciliano era nato a Bisignano nel cosentino, carabiniere come il fratello, figlio di contadini e, perciò, di una condizione sociale inferiore. Per ragioni legate alla divisione ereditaria del Nonno Nicola, di cui il fratello di Giuseppina, Arturo, si impadronì e che dissipò, non mise più piede a Feroleto.

Fino al 1939 andarono al mare in vacanza non a Falerna, ma a Roseto degli Abruzzi.

Con la morte del nonno Nicola nel 1939, dice E.S. “cominciò una vicenda penosa e rituale di testamenti perduti o inesistenti”.

“Dopo due anni, la vedova del fratello Arturo ne ritrovò uno stilato più di trent’anni prima dove era nominata erede universale. La vicenda si concludeva così, con la copia di quel testamento inviato a mia madre per raccomandata “.

“Si chiudeva un ciclo”, racconta E. S.. “ In Calabria non c’era più niente che mi appartenesse, se mai c’era stato qualcosa “.

Un’affermazione affrettata e rancorosa legata al trattamento che la madre subì da parte del fratello Arturo a proposito dell’eredità paterna. Arturo disse chiaramente che la sorella non aveva nulla da pretendere dall’eredità poiché a lei era stata fatta la dote quando si era sposata ed era andata via da Feroleto. Le negò perfino un pezzo di tovaglia ricamata.

Affermazione, comunque, che solo in parte era vera e che semplificava troppe cose.

La Calabria non la scordò mai. La racconto in tanti suoi libri, raccontò i tanti aspetti negativi in modo sbrigativo e senza attenuanti.

Prendeva in giro i calabresi: “i calabresi”, e lui si escludeva, “pisciano sempre in compagnia”,

” Soltanto i calabresi possono pensare di dare il nome di Addolorata ad una bambina nata a Parigi”.

Ebbe dei dubbi sulla proverbiale testardaggine dei calabresi. ” La Calabria, dice,  è scenario di un meticciato fra i più compositi. I geni primi geni si sono perduti fra sangue greco, romano, ebreo, barbaresco – cioè, turco, algerino, tunisino e marocchino -, quindi normanno, quindi francese, quindi spagnolo. Infine passarono i Mille di Garibaldi, per non dire di quel c’era stato al seguito del cardinale Ruffo”. “Più che la tenacia, su quelle coste, per quei monti e quelle creste, ha allignato l’ombrosità, il rancore, la paura, un fosco coraggio che ha del ferino, magari un’improvvisa generosità, e un segreto imperio della sensualità o della bellezza fisica, della natura. Ma anche l’egoismo.

Questi sentimenti si aprono nell’ animo del calabrese come si possono aprire d’un colpo le vele ad un bel tiro di vento, ma poi sparire come una nuvola diafana al soffio della brezza. Al calabrese, di tutto questo, gliene resta il sapore in bocca, la malinconia – ed è la malinconia che, con verità e continuità, gli marca lo sguardo e, per un verso misterioso, lo tiene in vita.

In Calabria non ci furono viceré come a Palermo: niente città capitale. Forse consacrata dalla leggenda della tomba di re Alarico nel Busento, Cosenza conquistò una dignità architettonica, intellettuale. I Telesio e i Campanella furono fari luminosi, ma altrove.

Allo stesso modo i baroni del luogo: non ci pensavano due volte ad andarsene a Napoli, a corte, e là sprecare vita e denari.

La Calabria è un crogiolo di anonimati che si sfarina. Qualche castello, qualche palazzo di stile spagnolesco ma devastato dall’incuria. Rarissime biblioteche di famiglia, spesso disperse dal figlio spurio, fatto nascere a casaccio dal ventre della serva, che il destino- o ancora il caso? – vuole si impossessi di tutto senza avere testa di fare tesoro di quanto gli è arrivato fra le mani “. (La vita obliqua pag. 158-159).

Cercò le sue radici a Feroleto, a Nicastro, a Falerna ma lì non li trovò, perché non c’erano.

A Falerna ci andò al mare ed a puttane, ma le sue radici erano a Bisignano.

I nonni di E.S. erano Alfonzo ed Angela. Il soprannome era dei “PITELLA”  ed  abitavano  all’incirca a metà strada fra il comune di Acri e Bisignano dove attualmente è situata una fontana. Nella zona i Siciliano avevano un fondo agricolo (Zaccone) che la costruzione della nuova strada per Acri, ha ora diviso in due.

Lo zio Vincenzo teneva molto a quel fondo e si affidava al nipote, mio padre Francesco, contadino specializzato soprattutto nella coltivazione di ulivi e di viti, per tenere in ordine ed in produzione il fondo. Lo tenne fino alla fine degli anni sessanta, poco prima di morire.

La famiglia Siciliano si componeva di sei fratelli e tre sorelle.

Vincenzo              sposato       con La Rosa Giulia n.14.06.1890 a Nocera Terinese

Salvatore              sposato       con Pometo Concetta;

Natale                   sposato       con Ienzi Giuseppina;      genitori di Enzo

Angelo                   sposato      con De Bonis Francesca

Aldo

Ugo                        sposato        con      Maria, romana di Trastevere  Madre di Maurizio

Aurelia                  maritata       Meringolo

Franceschina        maritata      Fucile

Domenica             maritata      Mirabelli

Fu lo zio Vincenzo che aiutò la famiglia quando fu in difficoltà. Dopo la morte del padre, Enzo trascorse per alcuni anni le vacanze a Bisignano a casa dello Zio.

Di solito ad agosto, non tutto il mese, perché in parte si recava   a Feroleto a fare visita ai parenti della madre.

Fu durante uno di questi soggiorni che si rese autore di un curioso episodio. A fine agosto a Bisignano ricadevano i festeggiamenti del Beato Umile, ora Santo, e di solito si allestiva un palco al Viale Roma, dove una orchestra eseguiva brani musicali classici. E’ nota la passione di Enzo per il canto.” Potevo essere, dice lui stesso, un baritono”. Per cui andò dal direttore dell’orchestra e chiese di poter cantare. Al diniego del direttore salì al secondo piano di un edificio in costruzione, proprio di fronte al luogo dove era allestito il palco, e cantò. L’episodio mi è stato riferito dall’unico fotografo del tempo che tutti noi conosciamo.

Enzo non diventò baritono per una fastidiosa raucedine che lo colpì proprio il giorno prima di essere ascoltato da un maestro affermato.

La sua passione per il teatro e, soprattutto, per la musica è nota.

La musica classica piaceva al padre, suo zio Vincenzo godeva nel sentirlo cantare. In famiglia questa predisposizione non era sconosciuta. Il nonno di Enzo, Alfonzo era solito cantare accompagnandosi con la chitarra.

Sia il padre, sia lo Zio Vincenzo non si stancavano mai di dire quanto delicata ed intonata fosse la sua voce, una voce tenorile che si sviluppava con grazia nel falsetto. “Enzo era certo che i due figli avevano amato a ritroso quella voce e che quella voce era stata per loro ragione di un imbarazzo. Che il padre cantasse doveva sembrare loro una debolezza. Ma che cantasse lui era per loro scontato “.

Nel anni 50 in una delle sue scorrerie alle rovine di quello che fu il castello di Bisignano fece la conoscenza di un maestro liutaio De Bonis, probabilmente Nicola, che lo gratificò delle strofe della seguente canzone ;

“Tieni, catarra, li cordi d’argentu;

sona, ca ti li fazzu tutti d’oru,

si tu mi fa’ affacciari ‘nu momentu

‘i ‘ssa fmestra, lu caru trisoru …

Meticolosa la descrizione della breve esibizione del liutaio: “lavorava silenzioso, sorrise appena. Saggiava con i polpastrelli la qualità di un legno, seguiva con l’occhio il pelo di una curvatura. Nelle sue mani – lo sguardo di carbone gli illuminava il viso olivastro già screpolato da qualche ruga, nelle sue mani era qualcosa di febbrile se avvicinava l’impugnatura alla pancia dello strumento. Un colpo di polpastrello dato con il dito medio provava l’eco di suono di quella pancia. La palma aperta accarezzava il legno ancora da lucidare. Con voce leggera concluse l’intera ottava che aveva attaccato:

Sona e cacci suspiri a cientu a cientu;

chiangi, catarra, ammolali lu coru …

S’illa è tanta crudila e nun ti senta:

dilli, catarra mia, dilli ca moru …  “.   “Da mia madre amava il mare “

Lo Zio Vincenzo muore nel 1960. Enzo ormai era adulto, diradò le visite. Nel 1960 era diventato funzionario Rai. Nel 1963 si sposa in municipio con Flaminia Petrucci, figlia di Hilde, ebrea tedesca sfuggita ai nazisti e riparata in Italia.

Un romano di origine calabrese sposa a Roma una ebrea tedesca, orfana come lui del padre, diventato famoso si stabilisce al Vertano, località umbra dove compra e ristruttura una casa colonica abbandonata e ricrea lo stesso ambiente e la stessa atmosfera che lui aveva vissuto quando era ragazzo e passava le vacanze estive insieme al padre Natale nella tenuta del nonno Nicola a Feroleto.

Si era forse pentito di non aver fatto felice lo zio Vincenzo andando a caccia con lui, ma la caccia non l’aveva dimenticata. Al Vertano si dilettava a discutere di caccia con Santino, il signore che si occupava della casa e del terreno. ” Il fagiano prima si alza e poi si abbassa ”,diceva Santino. Parabola della vita e del sesso.

Credo di averlo incrociato, avevo 14 anni, un’estate in visita a Zia Giulia, la vedova di Zio Vincenzo. Era insieme con il cugino Maurizio in macchina, una Giulia Alfa Romeo nuova di zecca bianca. Anni dopo ne comprai una, o meglio me la regalò mia Zia Concetta per il diploma conseguito, ma di colore amaranto.

Poi lo persi di vista. Prima dell’intitolazione della Scuola non avevo letto nessuno dei suoi libri. Quando fu designato Presidente della RAI ne fui intimamente contento. Tra il 1973 ed il 1975 Enzo tenne sul primo canale RAI  a tarda ora un settimanale di cultura “Settimo Giorno”.

Mio padre, a volte, mi chiedeva se avessi visto la trasmissione. Lui non ne perse una, anche se non era un letterato, ma un contadino che ogni mattina doveva alzarsi presto per andare al lavoro. Forse neanche si conoscevano, ma a distanza grande era la stima e la soddisfazione di mio padre per quello che era diventato  E.S..

Non so in che anno, mio padre andò a Roma a fare visita ad Enzo. Quando sul finire degli anni ottanta Enzo fu chiamato a dirigere a Cosenza il Teatro stabile Calabrese ricambiò la visita.

L’esperienza del T.S.C. finì in malo modo. La bestia nera di E. furono i socialisti. Non volle adeguarsi ai suggerimenti lottizzanti ed assistenziali dei politici e si dimise, rimettendoci anche parte dello stipendio.

A Cosenza c’era già stato nel 1951 nell’estate subito dopo la morte del padre.  La sosta a Cosenza era obbligata. Arrivava con la madre in treno e dovevano aspettare la  corriera  per Bisignano che partiva  a metà pomeriggio. Il bar dell’albergo Imperiale di fronte alla stazione, lo stesso dove il Saverio de “la vita obliqua”, il figlio bastardo del nonno Nicola, soggiorna quando si reca a Cosenza per sbrigare i suoi affari, “sarebbe stato il loro rifugio fino all’ora della partenza, per quell’ estate e per le sei estati appresso” che Enzo passò in Calabria.

 

Nel Diario italiano 1997/2006  Pag.159  rinveniamo una impietosa descrizione del centro storico di Cosenza.

“Cosenza. Il restauro del centro storico. Una storia annidata dietro facciate di palazzi corrose da un’incuria cerebrale, Certe finestre sono diventate bocche incendiate, Pare che la ‘ndrina negli anni recenti abbia dato fuoco qua e là per “avvertihttps://www.youtube.com/watch?v=C9RbEUVxbvAre”, nei momenti più tristi dell’abbandono, non si sa bene chi e per cosa: distruggeva, incendiava per aprire propri spazi di sfruttamento, o per dare segno semplicemente della propria presenza. Su per la collina che sale verso il duomo e poi verso il convitto dei gesuiti le strade si attorcigliano ai fianchi del corso Telesio come serpicine cieche. Le facciate dei palazzi hanno grazie di sopraporte e finestre concepite in disegni di un barocchetto affettuoso e dalla sorridente magniloquenza. La città vecchia precipitava verso le rive confluenti del Busento e del Crati, annidata in modo da difendersi, se possibile, da estati e inverni ugualmente feroci “.

Diversi libri suoi libri hanno come sfondo i luoghi natii della madre, Feroleto, Nicastro, Falerna, dove aveva trascorso lunghi periodi della sua giovinezza, ma in tutti sono infilati riferimenti alla Provincia di Cosenza.

La copertina del suo  ” Non entrare nel campo degli orfani ”, un serpente arrotolato su stesso con al centro la bocca spalancata, rappresenta uno dei mosaici  costruiti sul pavimento della chiesa di San Adriano a San Demetrio Corone. Nella simbologia religiosa rappresenta il peccato.

“A Bisignano abbiamo fatto rientrare i socialisti con la coda tra le gambe: altro che manifestazioni di piazza”, ricorda il federale di Nicastro a Saverio che si era convinto di iscriversi al fascio, dopo che era andato in fumo l’uliveto che Maria Liguori aveva portato in dote.

A diciassette, diciotto, diciannove anni e in seguito visse meravigliose estati marine a Falerna una spiaggia omerica, deserta, dove ambienta “Diamante” ,la vicenda di un” ingenuo, romantico giovane romano che soccombe alla disillusione morale e psicosessuale”  e lascia Roma per uno strano lavoro sul litorale semi-desolato calabrese, per ” organizzare  ” la biblioteca di una ricca famiglia locale.                          Solo che Diamante è una rinomata località turistica nel cosentino.

La lingua batte dove il dente duole.

Nel suo “Mia madre amava il mare” parla diffusamente di Bisignano. Parla soprattutto dello Zio Vincenzo, il fratello maggiore del padre, la figura più autorevole, quella che riscuoteva maggior rispetto, considerazione e stima.

Descrive con dovizia di particolari la vita quotidiana dello Zio e della zia Giulia, dei rituali per il pranzo, delle abitudini dello Zio, della caccia.

Ricorda quando da ragazzino, le due tre volte che era venuto a Bisignano, aveva sempre saltato la rete del giardino ed il muretto  per andare ad  osservare il lavoro del vasaio che aveva la sua bottega sulla via, che fotografa con meticolosa precisione :  “spiavo il lavoro di quelle mani attente, precise che, sul tornio messo in moto da una gamba nuda, trasformavano in velocità una pagnotta di creta in un tarantino cui poi venivano applicati con delicatezza i manici a treccia, o in un piatto prima dilatato come un fiore dai petali cadenti e poi, più la ruota andava, fissato dal puro movimento nell’equilibrio di un cerchio. Il tallone del “pignataro” batteva a ritmo sulla pedana e la metteva in moto. La strada si riempiva di questi colpi sordi e scanditi – era uno strano tumulto festoso cui si univa la nota lunga di un ultrasuono, il lamento della vite di ferro, del perno, che legava la pianta della pedana al supporto dove le forme prendevano vita. La creta che quei mastri “pignatari” lavoravano era chiara. In quella tinta rosata, che l’acqua rendeva di un punto più scura, le forme acquistavano regola e misura con il miracolo della centrifuga. Le dita le accompagnavano, una spatola rettangolare poteva rifinire a tratti l’opera delle mani – ma erano le mani, delicate, musicali, d’una sensualità sfibrata, e tese nell’opera, a stirare la materia come fosse caucciù, a raffinarla come seta, a renderla liscia e sottile, ad accompagnarla con grazia nella dilatazione delle curve o a restringerla verso il colletto di un’imboccatura. Il pane di creta veniva piazzato e accarezzato cosi che il suo centro andasse al centro del tornio. Il piede già cantava sulla velocità impressa. A quel punto i pollici affondavano al cuore dell’impasto, e, con sforzo più mimato che reale, le altre dita tiravano su quella sostanza gocciolante acqua, e il disegno dell’oggetto via via si liberava dal nodo opaco dove appariva segregato. Poco dopo era l’oggetto stesso a ruotare puro fra quelle dita – qualche minuto appena, un colpo di spago alla base per provocarne lo stacco, e la brocca, il piatto, allineati in serie identica su una lunga pianella, andavano ad asciugarsi nell’aria arroventata dal solleone. Nelle giornate quando le fornaci venivano fatte ardere, si spandeva per tutto il quartiere il profumo dell’erica che bruciava. Erano, infatti, le fascine di erica che davano fuoco ai ceppi dei forni – e il loro odore dolce e acre, di zucchero rosolato, dava aroma ai pomeriggi estivi illanguidendo nell’umido della notte. Era durante l’arco notturno che gli orcioli venivano cotti, poi raccolti nei magazzini e, quindi, i piatti smaltati nel lato concavo di colori crema o bianco o azzurro, con i carretti, erano portati nelle fiere, ai mercati settimanali, e venduti. I mastri “pignatari”, a Bisignano, erano tutti parenti fra loro, tarchiati, pallidi, nerissimi di capelli una volta che si fossero liberati dalla creta che li copriva a chiazze dalla testa ai piedi, – un sorriso pacificato alle labbra davanti al lavoro finito”.

Quando zio Vincenzo morì, il 4 agosto del 1960, avevo dodici anni ed  insieme al maestro sarto Alessandro andammo a comprargli un paio di scarpe nuove. Di vestiti ne aveva tanti, tutti di buona fattura e a doppio petto. Mia zia Giulia, la moglie, me ne regalò dopo uno. Ero alto e magro come tutti I Siciliani, anche se somiglio a mia madre Ginevra, e quel vestivo mi stava a pennello, mi faceva sembrare un figurino. Lo portai fino a che non si consumò.

Lo Zio Vincenzo era un carabiniere di nome e di fatto. Una persona tutta di un pezzo, con le sue irremovibili convinzioni, era stato un servitore del Re e tale era restato. Non solo lui. Ricordo mia zia Concetta, la vedova del fratello Salvatore, per lungo tempo aveva abitato a Roma e le brillavano gli occhi quando parlava della regina Margherita e della pineta di Boccea.

Enzo non aveva avuto il tempo di conoscere bene lo Zio Vincenzo e fu inevitabile che le loro idee sul modo di intendere la vita fossero inconciliabili.

Zio Vincenzo non avrebbe mai potuto comprendere perché Enzo fosse a quell‘età comunista, anche se nel 1956, in seguito all’invasione dell’Ungheria da parte dell’armata rossa, aveva già strappato la tessera della federazione giovanile comunista che con tanto orgoglio aveva mostrato alla madre.

Forse per quieto vivere la madre lo avvertiva di non prendere il discorso in presenza dello Zio. La caccia era un altro motivo di dissenso, né aveva idea di seguire il consiglio dello Zio che lo esortava a trovarsi un buon lavoro e di abbandonare le sue velleità artistiche.

Enzo faceva orecchio di mercante, anche se poi nel 1960 fece il concorso e nel 1961 divenne funzionario della RAI.

Si dimise un paio dì anni dopo, ma nel 1963 fece un sacco di altro cose.

Si sposò e diede alle stampe il suo primo lavoro: Racconti ambigui.

A volte sento qualcuno affermare che abbiamo sbagliato ad intitolargli la nostra scuola perché Siciliano non centra niente con Bisignano e con la Calabria.

Credo che bisogna integrare l’iniziale affermazione: Siciliano è stato uno scrittore, giornalista, intellettuale, la cui formazione culturale era avvenuta a Roma, ma i riferimenti alla Calabria ed a Bisignano sono continui e disseminati in tutti i suoi scritti.

La Calabria e Bisignano gli rimasero nel sangue, negli odori, nei paesaggi, nel mare, anche se qualche volta se ne dimenticò.

Salvatore Meringolo