38 ANNI DALL’AGGUATO AD EMANUELE BASILE: “AMORE MIO, ANCHE SE AVESSI GRIDATO NON SAREBBE SERVITO A NIENTE”

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Era la festa del Santissimo Crocifisso a Monreale. Il crocifisso che, col volto proteso verso la Conca d’Oro, benedice il territorio sottostante, forse sapeva cosa stava per accadere in quella bellissima terra resa disgraziata dagli inumani. Era il 4 maggio 1980. Un padre in divisa reggeva fra le braccia la sua piccola Barbara di soli 4 anni e anticipava di poco la sua signora, Silvana, tutti in attesa di assistere allo spettacolo pirotecnico che concludeva la festa della venerata immagine. Un killer di cosa nostra crivellò il papà di Barbara, il comandante della stazione dei carabinieri di Monreale, EMANUELE BASILE. Lo colpì alle spalle, come d’abitudine fanno i vigliacchi, i deboli, mentre gli altri due lo aspettavano in macchina pronti a fuggire e nascondersi, come d’abitudine fanno i topi. Il comandante cade a terra mentre ancora tiene la sua bimba stretta fra le braccia, quasi la schiaccia cadendo, ma la protegge. La moglie diventa donna-coraggio, inizia ad urlare “assassini, delinquenti” guardando negli occhi i killer del marito, mentre si dirige verso di lui sanguinante a terra e verso la figlia. Emanuele Basile arriva in ospedale ma non sopravvive all’intervento. Emanuele Basile era “solo” un carabiniere che svolgeva il suo lavoro senza compromessi. La sua “colpa”? Aveva indagato sull’omicidio di Boris Giuliano e scoperto un traffico di stupefacenti e consegnato tutto il materiale a Paolo Borsellino. Sua moglie Silvana continuò a sfidare i killer del marito nell’aula del tribunale, dove lasciò una testimonianza dettagliata che, inspiegabilmente, non servì ad evitare l’assoluzione in primo grado. L’ergastolo del secondo grado confermato in Cassazione fu un’ulteriore beffa: i tre imputati fecero perdere le loro tracce. Oggi, madre e figlia non ce la fanno a ritornare a Palermo né ad essere presenti alle celebrazioni in onore di Emanuele. Ancora non riescono a superare il trauma e la grave perdita, ancora non riescono a perdonare i killer e la (in)giustizia. D’altronde come si può chiedere o pretendere perdono?

Lo zio racconta: «La bambina non parlò per tre giorni, non aprì bocca, aveva la polvere da sparo sulla manina, i killer la mancarono per un soffio. Poi, dopo un po’, una notte disse che era stata colpa sua, che aveva visto quegli uomini e non aveva avvertito in tempo il padre».

Se ne fece carico la madre, del dolore suo e della figlioletta, spiegandole «che le pallottole corrono più veloci delle gambe e che quindi, amore mio, anche se avessi gridato non sarebbe servito a niente».

Cosa ci serve ancora, più di questo, per rifiutarla e non tremare nel dire che LA MAFIA FA SCHIFO?

Federica Giovinco