Minima (im)moralia. Brevi memorie di un vecchio cassonetto di campagna

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Chiamatemi Ismaele, chiamatemi Filiberto, chiamatemi Lupo Ezechiele, chiamatemi come caspiterina vi pare ma io non ho bisogno di un nome, sebbene abbia il mio bel numero di matricola ben stampigliato da qualche parte, come un ordinario prodotto in serie; sono solo un vecchio cassonetto, uno di quei vecchi e acciaccati cassonetti di campagna abbandonato a taglia ‘strata. Tutto solo soletto e quasi sempre a bocca spalancata, perché troppo pieno o pienamente svuotato o perché qualche screanzato, dopo avermi ben ingozzato, si è convenientemente scordato delle buone maniere: son cose che capitano con voi umani! Sono solo un vecchio cassonetto, vi ho detto e vi ripeto, tutto ammaccato e arrugginito e con qualche decennio sulla groppa. Le mie rotelline non è che girino più tanto, sempre a strattonarmi di qua e di là e la ruggine Dio Santo! Chi mi sospinge un metro più sotto, per non avere noie con l’olezzo pervicace delle mie interiora e chi mi riporta un metro più sopra per non avere, a sua volta, noia con la medesima fragranza, come se io potessi stabilire, a mio piacimento e nel mio esclusivo interesse, ciò che devo o non devo ingurgitare o potessi decidere di profumare o appestare o potessi, di mia spontanea volontà, prendere l’iniziativa di darmi una sciacquata o lasciar stare. La mia esistenza, ammesso che di esistenza si possa o si debba parlare, è legata a doppio e triplo filo alla vostra biasimevole vita e alle vostre presunte scelte, senza contare che, per quanto mi riguarda, c’è sempre lo stronzo pronto ad angustiarmi, in un modo o nell’altro, strattonandomi proprio ‘mmienzu ‘a strata, proprio lì dove non posso e voglio stare. Ho perso il conto da quanto tempo me ne sto qui tutto solo soletto ‘a taglia strata ma, in verità, non me ne importa più un fico secco, aspetto solo che un carroattrezzi raccolga la mia misera ferraglia per condurmi, in grazia degli uomini e di Dio, nel cimitero dei cassonetti, non perché io non possa o non voglia più rendermi utile ma perché sono semplicemente passato di moda, ed in attesa che la raccolta differenziata non sia più soltanto una chimera o una minaccia, non posso che aspettare il fatidico giorno del mio trapasso.

Ne ho visto tante in vita mia, per quanto, a vostro insindacabile giudizio, il mio non sia proprio un bel vivere ma non credo di saperne a sufficienza su voi umani: niente, tuttavia, può più farmi meraviglia. A volte capita il balordo che s’accosta sornione con la sua bella macchinina pluriaccessoriata, apre il finestrino e, patapunfete!, scarica il suo malloppo bell’imbustato con l’intenzione di far canestro, ma col cazzo che scende e lo raccoglie se non fa centro! Non ha tempo di sbrodolarsi in quisquiglie di poco conto, pensa fra sé e sé, mentre ha già ripreso la sua strada per chi sa dove. La fretta, la fretta, tutti con l’alibi di questa baionetta ben piantata nel didietro, voi umani! Ma non la sapete c’a gatta pressarula ha fatto i gattini ciechi? E poi c’è sempre il bellimbusto, look tirato a lucido e piglio indomito, col suo suv del cazzo, che me lo sbatte proprio in faccia il suo macchinone del cazzo, con quella voglia malcelata di dimostrare al mondo di essere un duro e d’avercelo ancor più duro. …Ma il priapismo non è una malattia? La signora grassa e smargiassa, frustata casalinga perlopiù, invece s’avvicina circospetta come una chioccia e con tutta la sua forza ficca il suo fagotto fra una busta e l’altra e vieppiù arrabbiata mi chiude la bocca sdentata, sbattendo il coperchio con altrettanta e smisurata forza, che non so proprio da dove cacchio se la tiri fuori tutta la sua forza, la lurida troia lardosa! I giovincelli invece, non si danno pena di aprirmi la bocca, forse per questione d’igiene o perché per indole naturalmente schifiltosi, e placidamente abbondonano il loro ingombro ai miei piedi, con virtuosa nonchalance ecologista, ripartendo a tutta birra sulle loro due ruote con l’ebrezza di dimostrare al mondo di rompergli, all’occorrenza e a lor piacendo, il benedetto e benamato buchetto del culo! Begli screanzati, voi umani! Sempre pronti a pontificare, a ingiuriare, a farvi le pulci, a menar vanti e giudizi, e poi a fare come tutti gli altri o peggio degli altri, comunque sempre pronti a rimanervene spavaldi e infingardi a braccia conserte! …Sai la novità! Senza contare quei quattro stronzetti che, l’altra notte, hanno dato fuoco a dei cartoni proprio sotto ai miei piedi, come se io avessi la responsabilità o la colpa di tutta la monezza che voi tutti mi buttate dentro e, mai appagati, tutt’intorno, che… che colpa ne ho io se quelli della nettezza urbana non passano un giorno e l’altro pure! …Che meno male che c’era vento e si è messo pure a piovere, se no col cacchio che avrei potuto dettare le mie brevi memorie al mio pennivendolo di fiducia! Brevi, non perché io non abbia da dire o raccontare, ma così, per pudore, per non annoiare, semplicemente perché, col tempo, osservandovi, mi sono accorto che nessuno vuole più ascoltare, che tutti sembrate dei libri stampati e non si capisce mai che cazzo abbiate sempre da dire e ridire. Quasi che non riusciate o non abbiate più voglia di pensare e riflettere, intenti solo a riflettervi nello specchio della vostra ridicola e insulsa vanità. …Ché poi io non l’ho ancora capito che cosa ci faccio ancora qui tutto solo soletto ad aspettare e a (r)accogliere i  vostri (in)comodi? Ma, di grazia, posso forse fare altrimenti? A volte ho la netta sensazione che il mio esserci o non esserci, a tutti voi, non vi cambia di molto le cose, che vi basti una scarpata, na menza timpa, un fosso o nu vallunu per liberarvi del vostro fardello. È nelle estemporanee escursioni per valli e clivi delle vostre amene contrade bruzie, che ci si accorge dell’indubitabile valore estetico d’un elettrodomestico eviscerato, piuttosto che d’un parmaflex sventrato, d’un w.c. immacolato, abbandonati alla deriva, solinghi o ammucchiati, lungo il tragitto e la loro presenza estraniante, prontamente, a restituire la lezione di Duchamp: decontestualizzate perdinci! Lungo i cigli delle carrozzabili, per plaghe, laghi e macchie, lungo la battigia e di torrente in affluente, dal Crati, al Duglia, al Mucone, è la presenza di sozzura, d’inerti ed eternit, di materiali vieppiù tossici, a riconciliare con la magnificenza dell’esistere e a benedire la bellezza atroce del creato.

Proprio screanzati voi umani! Sì, lo so mi ripeto, ma che volete farci: l’arteriosclerosi. Con l’età! Oh, nessuna meraviglia. Certo che non ho un ciufolo d’arteria o uno straccio di capillare nel mio corpo di lamiera, ma per quanto io non abbia un vero metabolismo da tenere a bada, vi chiedo cosa ci sia in questo nostro fottuto mondo che non faccia i conti con l’invecchiare! La ruggine, Dio Santo! Che ne sapete, voi umani, di come possa ridurti una tale calamità? Sì, proprio degli screanzati voi umani! Un cassonetto, cosa volete che sia un cassonetto tutto acciaccato. Alcuni s’illudono di sbarazzarsi solo della spazzatura invece altri non hanno che da buttare ricordi, ideali, un passato da dimenticare o difendere. Ma è spazzatura, solo spazzatura, mi direte! Perlopiù le stesse marche, le stesse fogge, gli stessi cibi surgelati e/o precotti all’insegna del rimbambimento generale ovviamente (tele)guidato. Altro che dieta mediterranea del cavolo …a merenda! È la visione di questo bel festival di paccottiglia nei cassonetti, uguale dalle Alpi al Lilibeo, che riconcilia appieno con l’italianità repressa, ostentata ma in conclamata crisi morale e non solo. Nella civiltà del benessere o dei consumi, però, quest’asserzione rischia d’essere sminuente, riduttiva, offensiva di tutte le meraviglie d’oggidì. La fogna è la coscienza della città, scriveva Victor Hugo. È la spazzatura, la mondezza, il pattume a raffigurare appieno l’emblema del presente ad esprimere e raccontare la coscienza, l’animus vitale, d’una città, cittadina, d’un nucleo abitato. I rifiuti di cui disfarsi, d’allontanare da se stessi e dal tiro del proprio naso, i rifiuti da nascondere alla vista, da occultare come san fare i gatti, magari sotto l’asfalto di Viale Parco o in un campo a cielo aperto, mmienz’a na timpa o mmienz’a nu jumu, i rifiuti da compattare e (termo)valorizzare, i rifiuti solidamente urbani come risorsa da millantare. Io, però, sono sempre più convinto che la spazzatura è l’anima, la carta  d’identità, il precipitato e il significato ultimo della società attuale. Un tempo si diceva che gli uomini, in qualche modo, sono ciò mangiano, al giorno d’oggi si può invece dire che gli uomini sono essenzialmente ciò di cui si disfano. Nel gesto reiterato e nella qualità residuale, sempre uguale a sé stessa, dei vostri rifiuti organici e non risiede la natura più autentica di ciò che siete, siete stati, sarete, e pure di ciò che vorreste o non vorreste essere e non potrete mai essere. Vi tradite con le vostre stesse mani, ogni volta alla stesso modo o maniera. Non è un caso che la parola spazzatura oggi sia diventata così dilagante, tant’è che si parla di tivù spazzatura, di cibo spazzatura, di letteratura o musica spazzatura, di cultura spazzatura eccetera eccetera. Non è un caso che le dinamiche della società dei consumi, e lo stesso vostro rapporto con il possedere, vi (tele)guidano nel decidere sulle cose di cui disfarvi, e così come, per i bulimici e gli anoressici, c’è sempre chi tende a conservare tutto sperando nell’immortalità o nella progenie, e chi invece è sempre prodigo nel liberarsi di ogni orpello, fiducioso delle proprie inesauribili possibilità e pieno di speranza nel futuro. Nelle graduazioni di questi due estremi la sorpresa o la certezza di soffitte ingombre, di armadi strapieni, di angoli della propria casa o del proprio giardino ricolmi di oggetti e paccottiglia  che non vi verrà mai voglia di tirar fuori o usare. Prosit.

Rosario Lombardo