Itaca, il primo lavoro discografico dei MedinSud: Recensione

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Itaca non è solo un’isola. Non è solo una terra. Essa racchiude nell’immaginario collettivo quel sentimento mitico di ritorno a casa; fra le sue pieghe si nasconde l’intimo calore che solo il focolare domestico può donare. Così come quel famoso Ulisse che la tradizione letteraria ci ha lasciato in eredità torna alla sua amata terra dopo inumani peripezie, così, oggi, Itaca non è solo il nome di una storia leggendaria, bensì l’emblema di una condizione interiore che lascia in bocca quel sapore di lontano che si impasta con ciò che ci è più vicino e familiare. In questa ambivalenza troviamo quella bellezza che tale nome – Itaca – può ancora offrire all’uomo moderno dilaniato dalla necessità di andare commista al bisogno di ritornare.

Ascoltare quest’album, primo lavoro discografico dei MedinSud, offre la possibilità di sperimentare tale ambivalenza. Si viaggia, immancabilmente. Ma si ritorna anche a casa. Questo è forse quanto gli autori del suddetto disco hanno voluto trasmetterci: è quella condizione propria del meridionale, di colui il quale, fin da tempi immemori, ha dovuto spostarsi per poter vivere; di colui il quale, immancabilmente, nella maggior parte dei casi, è tornato a quel borgo natio in fondo mai abbandonato e mai dimenticato del tutto. Di contro, si può ascoltare anche quella ricchezza culturale che la nostra regione, nel corso dei secoli, ha sperimentato in virtù della sua particolare posizione geografica: terra di passaggio, terra di conquista, terra di ricchezza. Il nostro territorio, forse più di tanti altri, ha vissuto tante dominazioni che ne hanno, immancabilmente, condizionato la società e la cultura. Incursioni che trapelano dai suoni e dalle impressioni del disco, il quale ci restituisce quell’eco di terre lontane e irraggiungibili che hanno, in un modo o nell’altro, comunque, influenzato e contaminato la nostra musica, fondendosi in un unico prodotto, magico e particolare.

Il viaggio, sì, ma non solo… tanti altri sono i temi che attraversano tale lavoro. C’è tutto ciò che appartiene, in un modo o nell’altro, alla tradizione calabrese. Si parte con la cultura religiosa e devozionale di “Pizzu pizzu”, nel quale l’ambiente religioso appartenente alla tradizione cristiana si mescola con quello tradizionale nel vero senso della parola – quel sentimento religioso proprio dei piccoli centri e  dei borghi del meridione costellati di figure tipiche quali la natività, la Madonna ed il Gesù bambino commisto con altre figure tipiche ma non convenzionali quali angeli, santi, animali mitici. Tutto a testimonianza di un mondo che ha fatto e continua, tuttora, a fare della fede il suo centro nevralgico e peculiare.

C’è, poi, la magnifica “Ntra lu Mari” (letteralmente “Dentro il mare”), pezzo di assoluta bellezza sia musicale che testuale. Narra della storia di un marinaio che affronta il mare aperto, senza nessun apparente motivo; o meglio, semplicemente perché la sua condizione di marinaio è dettata da un’appartenenza familiare che marca inesorabilmente la sua condizione di esistenza (“Quannu nascivu iu nascivu a mari/nascivu nta li turchi e nta li mori”); arrivato in mezzo al mare, il marinaio si mise a piangere (“arrivai menzu u mari e mi pentiu […] lu marinaru si misi a chiangiri”), non per paura o per timore, ma per amore (“nun nè lu navigari a mi fa pentiri/ma è lu cori mia ca nun po stari”). È qui ritorniamo a quella condizione della quale ho parlato all’inizio: c’è un andare, un navigare che ci porta inesorabilmente fuori, lontano dalla nostra terra; la quale, tuttavia, non potrà mai essere dimenticata: il cuore resta; gli affetti, le tradizioni, le origini non possono essere obliate. Ci segnano, ci marchiano, ci legano ad una terra tanto disastrata per quanto amata.

Altro tema affrontato nel disco è la natura – quella natura rispetto alla quale si è inevitabilmente legati da condizioni certamente auliche, poetiche, mitiche; ma, se si guarda a fondo il sostrato sociale nel quale la nostra società si identifica, questo legame ci appare sotto una natura molto più cruenta e materiale. Essere legati alla terra ed alla natura significa poter sopravvivere, poter mangiare, poter gestire delle riserve di cibo che garantivano “qualcosa per sfamarsi” anche durante i mesi invernali. Condizione che, molto probabilmente, non appartiene più alle nostre generazioni, ma che fu di fondamentale importanza per i nostri nonni e bis-nonni, i quali non avevano, di certo, fra i loro obiettivi primari, quello di scrivere “belle poesie”; si aveva, bensì, la necessità, giornaliera, di portare a casa un tozzo di pane per poter sfamare famiglie numerose. Da questo l’importanza data anche ad una singola gallina, così come si narra in “Cittu za vecchia”, nella quale si evince tutta la paura per la perdita, eventuale o meno, di un singolo animale domestico (“Cittu za vecchia mia nun chiu’ chiangiri/ca la gallina ti vena pagata”).

Non si può, però, in un disco così ben fatto, dimenticare uno dei temi fondamentali della canzone tradizionale calabrese e di tutta la storia della musica nazionale e mondiale. L’amore, declinato nelle sue diverse forme, è quell’elemento che ritorna, ma del quale non si può fare a meno; è ciò che permette al disco di girare; è ciò che consente ai testi di trasmettere pura poesia; è ciò che dà alla musica quel senso di pace e di serenità che solo melodie e suoni antichi che si perdono nella notte dei tempi possono trasmettere. Nondimeno, è ciò che ha permesso a tale capolavoro di venire alla luce. Emblema di tutto ciò è l’incantevole “Ti vuagliu amari” (letteralmente “Ti voglio amare”). In essa si percepisce la grande passione amorosa che spinge l’amato verso la sua metà; il desiderio di vivere quella completezza di animo e corpo che solo la passione può restituire – integrità e pienezza che già dai tempi di Platone veniva decantata nel mito dell’androgino, ossia di quell’essere diviso a metà che per completarsi deve percorrere in lungo ed in largo la terra per trovare il suo corrispettivo e divenire, quindi, un essere completo, tondo e perfetto. Di notevole fattura, a mio avviso, la strofa che canta: “Vulissa divintari na rondinella/pi vulari a tia quannu si sula/vulissa muzzicari na minnella/cumu la vespa fa allu cuacciu i l’uva”. Anche traducendo i presenti versi si riesce a cogliere la bellezza delle figure retoriche – “vorrei diventare una rondinella/per volare a te quando sei sola/vorrei mordere il tuo seno/come la vespa fa al chicco d’uva”. È presente anche la grande tradizione bisignanese delle serenate, nelle quali l’amante si reca al balcone dell’amata per decantare il suo amore: “Sugnu vinutu di luntana apposta/pi ti purtari a tia su mazzi i juri/affaccia bella mia n’anzi sa porta/ca l’ura è tarda ed iu mi naiu jiri” (“Sono venuto da lontano apposta/per portarti questo mazzo di fiori/affacciati bella mia dinanzi a questa porta/che l’ora è tarda e devo andare via”). Amante che, come detto, sente il desiderio verso l’amata; passione che non solo completa, ma distrugge, spacca il cuore e l’anima: “Di l’uocchi mia tu ca si la luci/ti pregu dimmi iu chi tai fattu/tu ma fattu na chiaga aru piattu/sanari nun zi po’mai nent’affattu” (“degli occhi miei, tu, che sei la luce/ti prego dimmi che ti ho fatto/ tu m’hai fatto una piaga al petto/sanarla non si può mai, nient’affatto”). È un amore, questo, che va al di là del comune sentire, che non ha barriere, che non ha ostacoli; un amore che sfida anche la morte: “Ca nun ci lassu jiri mancu si moru/mancu si vaju aru mpiernu a pinari/ca si ven’a ra morti e dici mora/ci ricu ca iu bella ti vuagliu amari” (“che non lascio andare nemmeno se muoio/nemmeno se vado all’inferno a penare/che se viene la morte e dice ‘muori’/le dico che, bella, ti voglio amare”).

Infine, come non apprezzare la meravigliosa “Ballo a tre passi”, pezzo strumentale per chitarra battente, nel quale si può ascoltare lo splendido suono di uno strumento altrettanto unico e magico. Strumento particolare della tradizione calabra che sintetizza suoni di un passato ancor più incantato e mitico, il quale è sintesi di una ricerca strumentale notevole e precisa tesa a far riaffiorare suoni e colori musicali della tradizione musicale calabrese più antica e remota.

Credo, in definitiva, che questo sia un album ben fatto. Non ho altri aggettivi per descriverlo: è semplicemente “ben fatto”. Ogni cosa è al posto giusto; ogni suono, ogni intermezzo musicale ed ogni stacco sono nel momento giusto così come ogni parola, ogni figura retorica ed ogni metafora sono nel luogo giusto. È questo ciò che ne costituisce, a mio avviso, la grandezza. È un album che incarna quello spirito artistico che, ancora oggi, nonostante le difficoltà sociali ed economiche del nostro tempo, ci dona dignità e forza di vivere. In fondo è questo lo scopo dell’arte: quello di insegnarci che niente è ancora perduto. Lezione che preme soprattutto coloro i quali appartengono a questa terra, ossia ad una Calabria sempre più bistrattata e maltrattata, la quale, tuttavia, sa fare delle proprie difficoltà virtù e che nutre nel suo profondo più intimo tanta qualità e voglia di fare. Voglia di eccellere, come quella che appartiene a questi ragazzi, senza dimenticare ciò che si è stato e ciò che si è nel presente.

Giuseppe Donadio