Di pancia. Di testa. Di culo. Di petto. Pose, posture, posizioni e non so

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“Fate presto! Presto, per carità!” Dalle Alpi al Lilibeo questo il grido, la supplica, l’invocazione che si leva inesorabile, mestando e rimestando in un solo, sconsolante e sconsolato conato senza requie, …ché chi vuol esser lieto sia del domani non v’è certezza! E non c’è televisione, giornale o social forum che non raccolga e moltiplichi il monito e il sollecito sconsolato. La televisione pomeridiana ci si pasce e lo ripropone nel quotidiano rigurgito di banalità e facce note, intanto che gli editoriali dei giornali scodellano analisi ponderate ed insindacabili a seconda degli ordini di scuderia. Gli intellettuali politically correct della sinistra à la page a lanciar strali e sottoscrivere inutili appelli. I politici bidonati, scampati o semplicemente parvenu monitorano, inossidabili, la situazione a loro più favorevole per svicolare, prendere il largo, rimanersene comunque a galla. Del tutto indisturbata se non agevolata, la grande finanza (in)gloriosamente e/o impunemente a farsi i cazzi propri. Gli stessi, di ieri, che applaudivano e incensavano il governo Monti, da smemorati indefessi, a celebrarne il de profundis. Gli italiani tutti, conti in tasca, memoria labile e dipendenza televisiva in egual guisa, a reclamare, inveire, piagnucolare da indignati provetti. Ma… di grazia, se solo l’1% dichiara redditi superiori a 100mila euro, la maggioranza (90%) è sotto i 35mila, vorrà pur dire qualcosa oppure no? È vero c’è la crisi. Ma… non per tutti e non per tutti alla stessa maniera, basterebbe dare un’occhiata, ad esempio, agli stipendi d’oro di manager e boiardi di stato piuttosto che alle (s)fortune fiscali di tanti vip e faccendieri pluridecorati. C’è chi (di)spera e chi si spara e chi non batte ciglio e pappa. E c’è pure chi non ha conosciuto se non fame, onestà e calci in culo in tutta la sua vita fottuta. Anche in pieno boom. …È vero, c’è la crisi. Ma la crisi c’era pure nei settanta, ottanta, novanta e non è ancora passata di moda. La crisi è strutturale è nata col capitale/
sta dentro il meccanismo di accumulazione/
il riformismo non sarà una soluzione/
la crisi è già matura e Marx non s’è sbagliato/
quando che ci ha insegnato a prendere lo Stato.
Se la forbice tra ricchezza e povertà si allarga a vista d’occhio, è pur vero che l’Italia è, da sempre, un paese dove la mobilità sociale rimane al palo e l’esistenza di un nord ed un sud, in un quadro nazionale largamente disastrato, non marca solo una cesura geografica ma anche di opportunità, servizi, reddito. …Ah, la crisi! Ma cos’è questa crisi? Ma sarà sufficiente un governo e qualche riforma dell’ultimo minuto, visti i precedenti, per levarcela di torno?

Un governo a tutti i costi. Lo vogliono i sindacati confederali e confindustria, gli amministratori buoni e quelli di mezza tacca, i giornali e le televisioni e, con puro spirito di condivisione e (com)partecipazione, i politici stinti e di tutte le tinte che fanno eco e salamelecchi al coro unanime, senza distrazioni di sorta sui loro interessi di bottega. E lo vuole pure il leader in pectore Matteo Renzi che, da par suo, affonda: che non si perda tempo, poffarbacco! E nella caciara l’impazienza surclassa la brama di futuro, l’ansia di novità impatta con l’assurdo della realtà, e nessuno o quasi a domandarsi: fare presto, per far cosa? Sì, per far cosa? Un governo a tutti i costi e costi quel che costi? Le larghe intese, un governicchio, il governissimo, un governaccio, l’inciucio massimo? Un governo di scopo, un governo balneare, il governo del presidente, un governo  di minoranza, un governo tanto per o un governo che (non) raggiunga nemmeno la sufficienza? Il governo Monti frattanto, silurato dagli italiani, vivacchia senza volontà, mentre sulla scena avanzano, sotto mentite spoglie di impareggiabili saggi, i facilitatori di non sa che, e tra outsider, sherpa al lavoro e vecchie glorie, la politica scalpita nella corsa al voto per il nuovo Quirinale. …Ma è realtà o solo semplice rappresentazione della realtà? Eppure i risultati della tornata elettorale del 24/25 febbraio scorso sì sono rivelati più imprevedibili di qualsiasi sondaggio o pronostico, di qualsivoglia immaginazione o speranza, ma a più di un mese e mezzo dalle elezioni quanti si son già dimenticati di quei risultati?

Su quasi cinquanta milioni di elettori sulla carta, il centrosinistra e il centrodestra (alla camera) hanno raggranellato, ciascheduno, suppergiù un quinto dei voti mentre al movimento cinque stelle ne sono andati meno di un quinto, inoltre i consensi delle due coalizioni maggiori non hanno neanche sfiorato la metà degli elettori potenziali anche con l’aggiunta dei suffragi montiani. Nessuna maggioranza nei numeri, tre minoranze incompatibili fra loro, ma non del tutto, e una situazione di apparente stallo. Sì, perché nessuno eletto è disposto ad abbandonare il suo scranno prima di riuscire ad incamerarne gli agi. L’Italia, nel corso degli anni, a più riprese ha dato segnali, sebbene contrasta(n)ti, d’insofferenza, di volontà partecipativa, di desiderio di cambiamento. Non so quanti ricordano i quasi ventisei milioni di sì per il referendum sull’acqua pubblica del 12 e 13 giugno 2011 ad ulteriore testimonianza di una richiesta pressante, di larghi strati della popolazione, a contare di più che, nel corso degli anni, si è appalesata in vari modi e circostanze finendo per essere ogni volta travolta e/o miseramente tradita. L’affermazione del movimento cinque stelle è solo l’ultimo macigno scagliato nello stagno in ordine temporale. Tuttavia, nonostante il parlamento uscito fuori dall’ultima tornata elettorale sia in gran parte rinnovato sia sotto il profilo anagrafico che di genere (e non solo per gli eletti del movimento cinque stelle, beninteso) si ha l’impressione che a tenere le redini dei partiti, o pseudo tali, siano sempre le stesse teste d’uovo, le stesse logiche e dinamiche. E così da una parte riciccia un Veltroni e dall’altra un D’Alema, da una parte rispunta un Rospo dall’altra un Dr. Sottile, e giù con l’eterno ritorno del mito dei saggi e gli ottuagenari baluardi della democrazia, conferendo all’elezione dei presidenti delle camere il solo vero significato di rondini di una primavera che tarda ad arrivare. Inoltre, e per paradossale che possa sembrare, se gli eletti sono in gran parte rinnovati, almeno dal punto di vista della carta d’identità, le sacrestie e le conventicole periferiche dei vari partiti appaiono ancor più sclerotizzate e refrattarie a qualsiasi rinnovamento sostanziale, saldamente guidati da clan familiari e/o affaristici, leader acchiappatutto, opportunisti che s’adeguano alla bisogna. Le liste elettorali grondano di parenti e nominati eccellenti e di personaggi da decenni alla ribalta, con cumuli di (in)carichi e cariche e aspirazioni elettorali montanti (i vari Vendola, Maroni, Tabacci, Crocetta…), accanto a vincitori di primarie che, a volte, si sono rivelate ben più di una farsa. E come non ricordare il proliferare di liste civette o liste container (cavalli di troia?), gli impresentabili di ogni risma, la corruzione e consunzione a tutti i livelli, amministrativi e non, le eterne promesse e le allegre prese per il culo berlusconiane e non, la campagna elettorale preminentemente televisiva e una crisi economica che spesso è esibita come alibi e foglia di fico? Tutti elementi che esprimono non solo le enormi difficoltà o, se si vuole, la lunga agonia dei vecchi partiti, ma anche il loro rimanere, nonostante tutto, con le mani ben in pasta. La crisi italiana, è bene ribadirlo, non è solo economica e sociale, ma ben più profonda e radicata, se si vuole sistemica e oserei dire preminentemente morale e non certamente congiunturale. L’astensionismo in costante crescita (nel febbraio scorso, ad esempio, al senato a fronte di un numero di elettori di 42.270.824 i votanti sono stati 31.751.3509) ed il numero tutt’altro che irrilevante di schede bianche e nulle (al senato rispettivamente 369 mila e 763mila) sono, inoltre, indicatori evidenti se non di un malessere sociale, da sempre presente almeno dalle nostre parti, di una sfiducia inarginata nei partiti e nelle stesse istituzioni elettive e non. Insomma, come ho già scritto altrove: mai come adesso l’Italia appare un paese dilaniato fra ansia di cambiamento ed angoscia di perdita delle proprie rendite di posizione più o meno giustificate. Usando le parole di Alfonso Berardinelli, su Il Foglio di alcune settimane fa, mi verrebbe da aggiungere altresì: Noi italiani vogliamo essere governati bene, o più precisamente non vogliamo essere governati. Siamo indignati contro ciò che ci viene più naturale: l’inefficienza, l’inadempienza e la corruzione. Meglio però non scomodare sociologie d’accatto o citazioni fuori luogo, almeno in questa occasione, sul carattere degli italiani ma, alla luce dei risultati elettorali e non solo, risulta inevitabile domandarsi cosa diavolo vogliano davvero gli italiani per il loro paese. Certo non tutti la stessa cosa. Ancor più certo, poi, che non pochi italiani confidano da sempre nel miracolo per veder risolti, con un semplice schiocco, le proprie grane quotidiane, magari da chi ha già dimostrato, per decenni, di non riuscirci. …Un nome a caso? Berlusconi!

Il noto linguista Tullio De Mauro, alcune settimane fa, delineava un quadro sconcertante ed allarmante dell’alfabetizzazione in Italia: Il 71% della popolazione si trova al di sotto del livello minimo di lettura e comprensione di un testo scritto in italiano di media difficoltà: il 5% non è neppure in grado di decifrare lettere e cifre, un altro 33% sa leggere, ma riesce a decifrare solo testi di primo livello su una scala di cinque ed è a forte rischio di regressione nell’analfabetismo, un ulteriore 33% si ferma a testi di secondo livello. Non più del 20% possiede le competenze minime per orientarsi e risolvere, attraverso l’uso appropriato della lingua italiana, situazioni complesse e problemi della vita sociale quotidiana. Ce lo dicono due recenti studi internazionali, ma qui da noi nessuno sembra voler sentire. In verità, i giornali riportano ciclicamente statistiche e dati sullo stato comatoso della cultura in Italia e non è proprio il caso di ripercorrere la triste tiritera del degrado delle scuole e delle università o del fatto che l’Italia è,  in Europa, il fanalino di coda 
per la spesa destinata alla cultura. Sarebbe facile mettere in relazione il dato elettorale con quanto afferma Tullio de Mauro sull’analfabetismo, ma ho l’impressione che sarebbe ancor più facile e banale derubricare il voto ad una semplice questione di pancia, testa o cuore. Certo è che, spesso e volentieri, l’esito di una consultazione elettorale è il risultato, perlopiù, del gradimento o meno per l’attività svolta dal governo precedente (da qui la débâcle, nelle elezioni delle febbraio scorso, del governo Monti e di tutti i partiti che lo hanno appoggiato per più di un anno) senza alcuno slancio o vero interesse per il futuro. Quanti ad esempio si prendono la briga di consultare i programmi delle varie liste e quanti li comprenderebbero? Programmi che, peraltro, sono spesso un libro dei sogni, così da rimanere, agevolmente, lettera morta.  La grande questione è, tuttavia, che una democrazia non può reggersi solo sull’esercizio del voto come strumento di partecipazione e condivisione della vita e delle scelte delle istituzioni di una nazione.

Nella primavera del 1993 gli italiani hanno già detto no al proporzionale e scelto il maggioritario, come due anni prima avevano già detto no, in grandissima maggioranza, alle preferenze plurime (alla camera evidentemente). Nel ventennio successivo al Mattarellum si è preferito il Porcellum, e si è assistito ad una superfetazione di partiti, partitini e sigle (ma, miracolosamente, in alcuni casi, i rimborsi elettorali sono sopravvissuti o tuttora sopravvivono alla loro moria), al declino della rappresentanza parlamentare ed ad un aumento esponenziale della sfiducia nei partiti e nei politici, all’aumento vertiginoso delle spese elettorali e del finanziamento pubblico dei partiti, nonché ad una dilatazione senza pari delle spese della macchina dello stato in tutte le sue  ramificazioni e  declinazioni, senza riuscire a frenare in alcun modo, dopo l’happy end di tangentopoli, la corruzione e l’illegalità diffusa. I partiti se da un lato hanno occupato tutti i gangli vitali dello stato, nessuno escluso (impossibile non accorgersene, basti pensare alle pratiche clientelari sempre in auge, alle inefficienze dei servizi primari e alla spesa pubblica fuori controllo), dall’altro hanno perso la loro credibilità non solo per la pervasività del malaffare e di ogni sorta di illegalità e mancanza di moralità, ma in special modo per una manifesta incapacità di governo. Stretti nelle maglie di un’Europa ancora di là da venire e per decenni incapaci di coglierne le opportunità, scientemente o no non fa differenza, hanno lasciato campo libero all’azione della speculazione finanziaria e consegnato l’economia nazionale, quella reale, nelle mani di organismi internazionali come le agenzie di rating, la Bce, l’Ocse, il Fmi, senza riuscire ad affrancarsi dalla vecchia concezione di un mercato che si autoregola e da una moneta europea percepita dagli italiani come palla al piede o cappio al collo.

Il recente exploit del movimento cinque stelle ha sorpreso molti e per molti si è rivelato una delusione, quasi, per continuare con la metafora del macigno nello stagno, che l’onda d’urto di quel macigno si fosse già esaurita. Ai posteri l’ardua sentenza mi verrebbe da chiosare, ma non posso certo negare che pure in me una certa delusione si è fatta strada. Pur avendo votato movimento cinque stelle, però, ero tutt’altro che ottimista, non per il risultato elettorale ma sulla possibilità di un reale cambiamento. Dopo la scesa in campo e la vittoria di Berlusconi nel ’94, d’altronde, come dubitare che un miracolo analogo possa ripetersi? Berlusconi più nel male che nel bene ha condizionato pesantemente la politica degli ultimi vent’anni. Da padre padrone, il suo partito azienda ha fatto da format sia a destra che a sinistra. Il leaderismo e il narcisismo imperante, la mancanza di congressi, le epurazioni, il culto della personalità, sono stati elementi caratterizzanti la politica degli ultimi vent’anni, basti pensare, ad esempio, all’Italia dei Valori di Antonio di Pietro o alla Lega di Bossi (anche se è nata prima), oppure alle varie liste cucite addosso a vari leader o leaderini con il loro bel nome, a caratteri cubitali, stampato sull’effigie di partito.  E pensare che c’è stato persino chi contava di fare la rivoluzione!

Il Movimento Cinque Stelle è sì un marchio oggetto di una non controllabile proprietà individuale, ma è difficile scordarsi delle faide scattate, ad esempio, per accaparrarsi il vecchio simbolo della Dc ed in un mondo in cui tutto è brevettabile e brevettato, senza eccezioni, la conferma è nella guerra sui brevetti del genoma, perché stupirsi che il Movimento Cinque Stelle sia un marchio registrato oggetto di appartenenza individuale? Io non giustifico, non me ne meraviglio e non so se i militanti del movimento cinque stelle riusciranno ad emanciparsi da Grillo e dal suo guru Casalleggio, cosa da augurarsi per il bene del movimento stesso, ma certamente non ci si può sbarazzare di alcune linee-guida fondamentali e figure di riferimento, essenziali in un partito post-ideologico. La mancanza di democrazia interna nei partiti, del resto, è un classico nella politica italiana, basti pensare alla storia PCI. Per quanto riguarda il mito della democrazia diretta la vedo ancor più dura. Cliccare su un “mi piace” oppure inviare un commento a caldo per un post di Grillo o chicchessia, commento spesso frutto della rabbia del momento o dell’ignoranza su un dato argomento, mi sembra ben poca cosa e non certamente un segnale eclatante di democrazia. Lo stesso Grillo se ne è accorto e non si è certo risparmiato, sul piano fisico, nel suo tsunami tour. La rete, in Italia, è ancora un oggetto in mano a pochi, per motivi infrastrutturali e non solo, e l’uso che se ne fa, anche da parte di Grillo e dagli stessi grillini (vedi ad esempio la diretta streaming della consultazione BersaniMovimento cinque stelle) è solo un ripiego televisivo. Conservo, intatte, le mie perplessità sulla democrazia diretta e sulle falle delle piattaforme on-line di partecipazione, ma le potenzialità della rete sono già molte e molte altre sono ancora di là da venire è ciò fa ben sperare sul conto della democrazia e trasparenza all’interno del movimento e di altri partiti. La democrazia ha bisogno di luoghi, di incontri, di persone reali che si sbattono mettendoci la faccia, e che al momento opportuno si sappiano mettere da parte.

Karl Kraus diceva: L’uomo è stato creato libero, è libero; poi gli viene il morbillo, e poi la dignità — e con questa non sa che pesci prendere. Salvo che non diventi sottosegretario. È questa l’unica situazione in cui il filisteo va in giro come se dovesse portare la borsa della divina Provvidenza. Questa frase mi è venuta in mente  in questi giorni nell’apprendere la notizia dei soliti, e ahimè ricorrenti, episodi di spese allegre alla regione Piemonte e ancor prima dei 10 consiglieri indagati alla regione Calabria per soldi pubblici spesi in viaggi, tasse e gratta & vinci. Insomma, uno stillicidio che pare non aver mai fine.

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Rosario Lombardo