Castrovillari e la fama del suo Carnevale

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«Semel in anno licet insanire», dicevano i latini. Una massima che sembra racchiudere, nel campo dell’accettabile, anche le follie più sfrenate del Carnevale. La festa della burla e della trasgressione affonda le radici nelle antiche festività pagane, come i Fescennini e i Saturnali, durante le quali la gente più povera aveva il diritto di rovesciare l’ordine costituito: i nobili potevano essere derisi dai plebei e la più scriteriata libertà sovvertiva la morale corrente. Durante i Saturnali non esistevano più classi sociali. Gli schiavi vestivano vesti da padroni, sedevano a mensa con loro e si permettevano ogni cosa. Baldoria e stravaganze, però, erano consentite solo se firmate dal sorriso che la circostanza richiedeva, al contrario delle vere ribellioni contro la morale e la legge. Nell’antica cultura contadina il Carnevale era la festa dell’abbondanza, propiziatoria della fertilità della terra. E Carnevale era un dio dedito alla gozzoviglia e ai bagordi che indulgeva a una mensa sovraccarica di cibo. La prima definizione latina del Carnevale fu «Carnem levare», cioè «salutare la carne» prima del periodo di penitenza quaresimale.

Non a caso in Calabria l’uccisione del maiale ricade da tempi antichissimi quasi sempre in prossimità di questa ricorrenza e quindi anche della festa di Sant’Antonio Abate, il 17 gennaio. Primo perché si pensava di avere la benedizione da parte del santo Protettore degli animali; poi perché seguiva la gioia sfrenata, appunto del Carnevale, arcaico rito propiziatorio di fecondità e abbondanza. In questo periodo occorreva dar fine ai cibi che poi sarebbero stati vietati durante la Quaresima, come i salumi, «risorti» con tutti gli onori la mattina di Pasqua.

Nel Cinquecento, la festa licenziosa fu molto osteggiata da tutti gli ambienti religiosi. Il Carnevale così come lo conosciamo oggi è più simile a quello settecentesco o dell’Ottocento, caratterizzato da chiassosi cortei di allegri mascherati che intonavano i famosi canti carnascialeschi e da manifestazioni come i bèrberi o le romane gare di moccoletti. Rimangono le tradizioni locali, i grandi carnevali storici come quello di Venezia, raffinatissimo e suggestivo, più artistico che burlone, più solenne che scanzonato, nella galvanizzante parata di maschere sulle imbarcazioni d’epoca.

In Calabria, il più esuberante e fantasmagorico è sicuramente il Carnevale di Castrovillari, conosciuto anche come Carnevale di Calabria. Qui, ogni anno si perpetua il rito irrinunciabile del «corso» dei carri. L’elemento caricaturale, che rende eccessivi i tratti umani su cui poter sorridere con sana ironia, sorge da colossi in cartapesta. Essi destano ammirazione per quegli artisti che forgiano enormi figure fantasiose e geniali da materie umili e per quegli «ingegneri del divertimento» che costruiscono sempre più sofisticati marchingegni della meccanica per dar loro vita. I veri protagonisti insomma sono loro: i «maestri della cartapesta», i coreografi, gli artisti della spettacolarità, gli artigiani degli effetti speciali. Per mesi interi, lavorano attorno a un’idea dandole una forma colossale, vistosa, efficace. Frutto di un’esperienza annosa, di una tecnica perfezionata, di un ingegno affinato dal gusto per l’ironia e per la sdrammatizzazione.

Il Carnevale di Castrovillari non è antichissimo – rispetto agli altri che si festeggiano in tutta Italia con i carri di cartapesta, i gruppi flolcoristici e le maschere di ogni tipi – ma è estremamente interessante, anche perché vi si svolge un Festival internazionale del folclore (al quale partecipano tutti i gruppi di lingua, usi e tradizioni albanesi che vivono nei dintorni). Questo grosso centro della provincia di Cosenza, inoltre, dà la possibilità di ammirare i costumi tradizionali maschili e femminili calabresi. Le «pacchiane», ossia le contadine, ricevevano in dote i loro abiti: l’abbigliamento di tutti i giorni consisteva in un’ampia gonna rossa a strisce nere con corpetto, una camicia di cotone con pizzi e ricami, un grembiule nero e, per proteggersi dal freddo, uno scialle verde che, debitamente piegato e posto sul capo, serviva anche a ripararsi dal sole. Gli uomini, oltre al tradizionale abito di fustagno nero, portavano un cappello a cono, detto «cuzzu».

Interessanti, infine, sono anche gli antichi strumenti musicali della tradizione calabrese, come la ciaramella oppure lo «zirru zirru»; strumenti tutti indispensabili per i balli tipici della regione.

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Vincenzo Pitaro © Gazzetta del Sud, pag. Cultura, di giovedì 16 Febbraio 2012 • Titolo: «L’esuberante e fantasmagorica festa di Castrovillari» © Copyright © Archivio: www.gazzettadelsud.it • www.vincenzopitaro.it