Amira, il primo romanzo di Mario Iaquinta

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libro-amiraQuello che nell’immediato appare, inseguendo Amira, è il sentirsi coinvolti nel dovere prendere le parti, meglio in dovere di. Già, perché lo scontro in atto nei territori libanesi, palestinesi implica ieri, come adesso, prendere le parti, e armarsi poi, ideologicamente e sentimentalmente per sostenere il ritmo incalzante anche dello scontro mai domo di un amore che in quel conflitto vero, fatto di armi, proteste, cortei e manifestazioni prende e in maniera manifesta possesso del corpo e dell’anima dell’autore. Dagli anni di piombo, così saranno ingiustamente soprattutto ricordati quegli anni, al contrario periodo irripetibile per la sua passione politica che traspare anche dal sudario delle emozioni che si dipanano dentro le contraddizioni di una generazione politicamente impegnata nella Firenze universitaria e rivoluzionaria a quelli di piombo fuso. Ovvero fino a quel periodo a noi prossimo che marca lo spazio tempo dentro il quale si consuma una metamorfosi culturale nel nostro Paese che questo racconto svela e porta alla luce anche suo malgrado.

La fatica infatti, che mi è subito apparsa chiara nel leggere e dovere scrivere poi, questa prefazione, è riferibile alla continua ricontestualizzazione che lo scorrere delle pagine impone, ovvero leggere di fatti accaduti ieri nel tempo, e ricollocarli, meglio comprendere come siano ancora e per sempre attuali: Potere e Resistenza. Potere delle armi, del capitale, ma anche dell’amore e delle passioni capaci di scuotere cuori, ma anche coscienze e masse di uomini e donne, un tempo. Di scuotere i tasti di una tastiera maggiormente oggi, purtroppo, forse, dentro una ricostruita coscienza nazional – popolare – virtuale che non produce gli stessi effetti benefici della lotta dura, pura, continua. È in questa direzione possiamo definire e meglio comprendere un ulteriore passaggio di testimone dal pensiero del Ferrarotti che risulta un approdo sicuro in una marea di contraddizioni proprie di quel tempo che affascinano l’autore e l’ancora che Bauman ci propone ora nell’analisi della società liquida a noi invece contemporanea.

Noi siamo il popolo che odia le distanze e i muri e tutto ciò che è solitudine e grigiore scrive infatti l’autore parlando di un Paese, l’Italia che dal Nord a Sud in quel tempo, in questa direzione si impegnava, mentre oggi al contrario, i muri hanno finito per travalicare gli Stati nazionali restringendo finanche i confini dell’anima di ognuno di noi. Anima, animo e sentirsi animati che al contrario traspaiono nella caparbietà di Amira che spasima per il suo popolo e dall’altra, invece, dal suo spasimante impegnato nella conquista invece di un sentimento a tratti carnale. La liberazione del suo popolo per Amira, la conquista di Amira per l’autore. Il suo continuare a trovare pretesti e contesti dove incontrare Amira, mi ha riportato alla mente poi, uno dei romanzi di Kierkegaard dove il protagonista e similarmente impegnato nella quotidiana pratica del pretesto, del caso, ovviamente costruiti entrambi per incontrare (guarda caso) la sua amata.
Uno sguardo però, quello dell’autore per Amira, per il contesto che vive, che lo circonda e che a tratti lo assedia abituato alla nudità non solo fisica delle proprie risorse, ma come spiega il suo amico Antonio necessaria a vedere la cosa giusta e nella giusta prospettiva. Era è rimane dunque, sempre, nella continua ricontestualizzazione che il romanzo ci impone una questione di prospettiva, ovvero del mondo e di quella scenografia ideale che ognuno di noi vorrebbe parteciparne scrivendone un pezzo, una pagina, magari, dove la bellezza può vivere senza vergogna mentre la vergogna impera e resiste, rigenerandosi come parassita nell’occupazione delle terre altrui, delle menti altrui di meno, ma giammai del cuore altrui. È lui il primo ribelle, il primo guerrigliero che con lucidità impressionante infatti Amira schiera in campo per resistere agli israeliani di ogni tempo. È a lui, anche se non lo riconosce mai nella sua reale portata che l’autore abdica dolcemente mentre infuria la durezza della ragion di stato, o non è forse tale anche la nostra ragione ideale quando chiede affermazione e liberazione da raggiungere entrambe costi quel che costi per affrancarci dall’oppressione. O non è tale forse anche in amore?
Ragion dello stato ideale, ancora, che si palesa nel rigenerare un tessuto urbano, ovvero parte di esso, a rischio necrosi attraverso “trasfusioni” continue di nuovo sangue rosso, ovvero di ideali rossi che come il sangue sono necessari, o lo sono stati per molti di noi. Trasfusioni di ideali che hanno restituito alla Comune, come primi esperimenti di beni comuni, dunque alla comunità fiorentina la casa rossa una fabbrica dismessa posta a doppio simbolo del mondo capitalistico per la produzione industriale di cappelli da una parte, attraverso le famose paglie fiorentine dall’altra. Una rigenerazione che passa anche attraverso continue trasfusioni sonore che inondano il tempo di una generazione senza età, immortale o mai nata, come le musiche dei Jedro Tull, Banco del Mutuo Soccorso, o della PFM.
Tutto nel racconto si mescola, cont(amina) ovvero si meticcia nell’unione di uomini e donne di Paesi diversi, con ideali identici riconoscendosi e accoppiandosi nella medesima lotta sempre più dura che partorisce il frutto prediletto della rivoluzione stessa: la battaglia, lo scontro, la disobbedienza, i pugni chiusi alzati al cielo. Sensazioni queste, che come scrive l’autore per descrivere il suo stato d’animo per Amira causano l’ubriacatura da felicità, nonostante il Potere non quello operaio, ma quello costituito, padronale, tentò e tentasse ad ogni sussulto di soffocare come fece con il movimento studentesco, ovvero con ogni movimento che infranga l’ordine precostituito tanto da farlo vacillare, da fargli meditare la rottura o perdita di significanza a causa del suo mutato cambiamento nell’approccio con la realtà. La rivoluzione, o il suo sogno aveva potuto iniziare a cambiare gli stessi rivoluzionari? Così, con parole altre scrive un leader milanese riconosciuto dal movimento narra l’autore all’indomani dei fatti nelle carceri di Firenze. Era la fine di un sogno?
A contrapporsi a tale epilogo, resiste Amira, suo malgrado quando raccontando di suo padre accenna alla cattiva sorte del popolo arabo, somma di tanti popoli e perciò di ideali, obiettivi o scopi diversi e per questo dice, è necessario racchiuderli in un cuore unico, assoluto. Ecco la via di fuga, che a loro non appare come tale, ma tale rimane ancora oggi. Un cuore assoluto che batte, palpita come muscolo involontario qual è come ogni rivoluzione e che come tale non puoi comandare, assoggettare o plasmare. Un cuore puoi ucciderlo, ma giammai dominare. Alla stessa stregua dei beni comuni, ogni sogno rivoluzionario, ogni rivoluzione o ribellione che sia è un bene indisponibile e per questo un bene prezioso da preservare, amare. Altrimenti è il vuoto ciò che ti assale. Punti di intersezione tra il presente e il futuro si fanno avanti con cupidigia se a resistere loro non c’è un rifermento certo, forte, passionale, carnale o ideale che sia. Ecco l’assenza improvvisa di Amira stava scolpendo questa sensazione di vuoto che ti chiude o esclude dal resto, da ogni contesto, fuorché da quella ostinata porta sempre aperta che mette in discussione l’autore. La porta è quella del Battistero che arriva, ma lui non lo sapeva fino a poterti fare incontrare il bisogno di comunismo più volte palesato nel romanzo, più volte da me al contrario, invece davvero proprio li incontrato e incarnato.
L’interruzione del filo logico che guida ciò che di più irrazionale possa esistere, ovvero dichiarare il proprio amore a una causa o persona, all’indomani del tradimento consumato in danno di Amira equivale a un tradimento consumato in danno del movimento, della causa, della rivoluzione, perché medesimo è il senso di vergogna e vigliaccheria interiore che ci agita nonostante cerchiamo comode vie di fuga palesando e agitando inutili supposizioni. Si ricorre a riempire il vuoto ripercorrendo luoghi e amici prima di quell’istante di crescente impazienza verso se stessi, riposti altrove. Ma ciò non basta, non può in nessun modo nell’immediato rimediare agli accaduti, ne rimpiazzare gli assenti o chi si assenta suo malgrado spinto per amore o disperazione. È il caso di chi parte dalla cavernicola Bisignano, per approdare in America dopo ventitré giorni di viaggio per mare, è il caso di chi invece preferisce accorciare le distanze per andare in Germania, o è il caso ancora di chi dal Libano come dalla Tunisia arriva a Firenze. È in ultima sintesi la storia delle migrazioni che impatta sulla vita e fin dentro la vita dell’autore seppur con cadenze temporali diverse, ma che tracciano una linearità complessa e straordinariamente semplice nelle stesso medesimo istante come solo le migrazioni sanno portare alla luce, ovvero trasfigurano lo spirito primordiale della sopravvivenza in essenza di lotta quotidiana. Quella lotta, che quando tutto sembra perso si riaccende per i fatti di Bologna, per le assemblee dei ciellini per le pubblicità dei grossi gruppi pubblicitari che ora in ordine non riconosciamo più. Questo è uno dei crinali da affrontare che la lettura del testo rimanda nel campo avversario, ovvero il nostro. Perché non siamo forse diventati tutti avversari di noi stessi quando non sappiamo decodificare più le tante città come Bologna, le tante cielline organizzazioni e o multinazionali che ci hanno fatto passare dall’essere impegnati a difesa dei diritti umani a difensori dei diritti dei consumatori. In questo passaggio epocale, si consuma infatti, il dramma, la tragedia, non più il romanzo che questa lettura ci pare innanzi.
Anche l’amore, tra Amira e l’autore si consuma, come fosse già nato con una scadenza preordinata, come lo è diventata la nostra esistenza fatti da codici, pin, password e date di scadenze. Siamo il trionfo dell’istante già passato, appena manifesto già consunto, siamo prodotti da consumare o nati già consumati se pensiamo alle tante vite da scarto che quel sogno, quel cuore assoluto che batteva in quegli anni volevano mettere al riparo, ovvero offrire loro la dignità dovuta.
A ricondurre però, per fortuna ogni cosa al suo posto, inquadrando le cose nella loro reale prospettiva, è ancora una volta Antonio ammonendo l’autore sull’immortalità delle idee, della lotta e dunque l’amore per se stessi, per una causa e l’altra parte di se stessi che come migranti che sfidano le intemperie dei mari e dei sentimenti mai domi continuiamo a cercare: l’amore.

Maurizio Alfano